giovedì 20 agosto 2009

MARCELLO DELL'UTRI. UNA VITA AL SERVIZIO DELLA MAFIA.

DA ANTIMAFIA 2000.

Nella lunga requisitoria al processo di Palermo i pm chiedono 11 anni per il senatore forzista
di Giorgio Bongiovanni e Monica Centofante

Lo scorso 8 giugno, dopo ben 16 udienze, i pm Antonio Ingroia e Domenico Gozzo hanno terminato la loro lunga requisitoria. A coronamento di un lavoro processuale <>, hanno detto, durato quasi 6 anni e 211 udienze nel corso delle quali sono state ascoltate 270 persone, fra testimoni, imputati di reati connessi e collegati.
E che ha portato alla richiesta, rivolta al presidente della seconda sezione del Tribunale di Palermo Leonardo Guarnotta – giudici a latere Giuseppe Sgadari e Gabriella Di Marco – di condannare Marcello Dell’Utri a 11 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa e Gaetano Cinà, suo coimputato, prima uomo d’onore della famiglia di Malaspina e successivamente “posato” a 9 anni per partecipazione ad associazione mafiosa.
Alla base delle richieste una mole di prove tanto imponente che <>: intercettazioni antiche e recenti, analisi di traffici telefonici, indagini di tipo tradizionale, acquisizioni documentali, consulenze finanziarie, risultanze filmate e fotografiche, dichiarazioni di protagonisti come Ezio Cartotto o Filippo Alberto Rapisarda e in taluni casi ammissioni dello stesso Dell’Utri.
Tutti fatti che hanno abbracciato un arco temporale di 30 anni, a partire dal 1970. Fatti per i quali, sostiene il pm Ingroia, si potrebbe persino chiedere <> e che i collaboratori di giustizia hanno avuto “soltanto” il compito di spiegare, fornendo la necessaria chiave di lettura interna a Cosa Nostra. Niente teoremi di pentiti, come certa stampa ha più volte sentenziato quindi, niente attacchi provenienti da fantomatiche “toghe rosse”, ma prove, che risalgono <>.
Quelle prove che tenteremo di riassumere, nelle pagine che seguono, elencando solo quei fatti che i pm ritengono ormai ampiamente dimostrati.
E che potrebbero portare ad una effettiva condanna del senatore Marcello Dell’Utri, nonostante la storia ci abbia finora dimostrato come sui processi politici sia possibile dire tutto e il contrario di tutto. E’ per questo che ci associamo al giudice Antonio Ingroia che nella sua richiesta di condanna ai giudici ha ricordato come <>, e come sia necessario <>, fare in modo <>.
<<”I have a dream” è una celebre frase di Martin Luther King, il profeta dell’uguaglianza. Ebbene, anche il Pubblico Ministero ha un sogno: quello che anche la legge penale venga applicata secondo il principio di eguaglianza, che tutti i cittadini siano eguali davanti alla legge penale>>.

L’inizio della carriera
Partono dal 1974 le indagini dei pm Ingroia e Gozzo tese a dimostrare i rapporti fra l’odierno senatore Marcello Dell’Utri e l’organizzazione mafiosa Cosa Nostra.
Dall’anno in cui nella villa di Arcore, appartenente all’imprenditore Silvio Berlusconi, si registrano due nuove assunzioni. Quella di Dell’Utri, amico e segretario particolare del proprietario, e quella di Vittorio Mangano, uomo d’onore della famiglia di Porta Nuova, al tempo capeggiata da Pippo Calò.
Personaggio già noto negli ambienti giudiziari per via di una serie di denunce, arresti, processi e condanne, Mangano viene ingaggiato, in quel periodo, proprio da Dell’Utri per rivestire ufficialmente l’incarico di fattore e stalliere. In realtà, racconterà il pentito Francesco Di Carlo, ex boss della famiglia di Altofonte, la sua reale funzione sarà quella di svolgere, unitamente al Dell’Utri e a Gaetano Cinà (uomo d’onore posato della famiglia di Malaspina), la funzione di <>. Minaccia incombente sulla testa dell’imprenditore, che in quegli anni riceve numerose intimidazioni e che per evitare il problema accetta di stipulare quello che la procura definisce un vero e proprio <>. A suggellarlo un incontro diretto e personale, organizzato da Dell’Utri, fra Berlusconi e i capi dell’organizzazione mafiosa di allora: Stefano Bontate e Mimmo Teresi, della famiglia di Santa Maria del Gesù, e Francesco Di Carlo, della famiglia di Altofonte. Testimone oculare, quest’ultimo, di quell’incontro, nel quale si definì l’inserimento di un mafioso di primo piano negli ambienti imprenditoriali milanesi. E a partire dal quale Silvio Berlusconi, affermano i pm, è nelle mani di Cosa Nostra.
Una denuncia alla quale i due politici di Forza Italia hanno sempre risposto con un <>. <>, sono le loro parole, <>.
A testimoniare la reale durata della permanenza del boss nella villa milanese c’è però un rapporto della questura di Milano. Il fattore, si legge, lascia la villa <>.
All’incirca due anni dopo il suo arrivo.
E sono due anni, spiegano i giudici, nei quali succede di tutto e di più.
Ma perché Berlusconi e Del’Utri mentono sulla data dell’allontanamento dello stalliere da Arcore ed era vero che potevano disconoscere la sua reale identità criminale?
Il 7 dicembre del 1974 l’Anonima Sequestri rapisce Luigi D’Angerio, amico di Berlusconi, all’uscita dalla villa di Arcore dove aveva preso parte ad una cena. I sospetti degli inquirenti ricadono su Mangano, ma Berlusconi non ritiene necessario allontanare lo stalliere;
il 27 dicembre dello stesso anno i carabinieri arrestano Mangano con l’accusa di truffa. Una volta scarcerato fa il suo ritorno ad Arcore;
il 18 maggio del 1975 esplode una bomba in via Rovani, contro la sede milanese della Fininvest. Berlusconi e Dell’Utri pensano subito a Mangano e lo rivelano nel corso di una telefonata del 1986, che sarà intercettata nell’ambito delle indagini per il fallimento della Bresciano Costruzioni;
il 1° dicembre del 1975 i carabinieri di Milano arrestano nuovamente Mangano per porto abusivo di coltello e scoprono che deve scontare anche una condanna per ricettazione. Anche questa volta, uscito dal carcere, il mafioso ritorna ad Arcore.
Nel frattempo, all’interno della villa, si registrano continui e misteriosi furti di quadri e, secondo le dichiarazioni di diversi e accreditati collaboratori di giustizia, tra cui Salvatore Cancemi, molti sono i mafiosi che si rifugiano tra quelle mura. Vittorio Mangano, è il suo racconto, <>, <>, <>.
A confermare le sue dichiarazioni Giuseppe Contorno e i fratelli Antonino e Gaetano Grado. Quello stesso Grado che Antonino Calderone, collaboratore catanese, vide <> Dell’Utri, al ristorante “Le colline pistoiesi”, in occasione di un incontro organizzato per festeggiare il compleanno del Calderone stesso. Quello stesso Grado, continua il pentito, che era tra gli organizzatori di un sequestro mai avvenuto del piccolo Piersilvio Berlusconi.
E il Cavaliere “qualcosa” doveva sapere, riflettono i pm, dal momento che il bambino, con il resto della famiglia, venne trasferito per un periodo in Spagna per stare al sicuro.
Ma se tali fatti, ancora oggi, non sembrano rivestire particolare gravità per Dell’Utri e Berlusconi non fu così per la stampa di allora. <>. Una cosa, spiega, che avrebbe potuto offuscare l’immagine dell’imprenditore, e così <>.
Il suo allontanamento da Arcore implicherà anche l’allontanamento di Marcello Dell’Utri.
Scaduto il contratto di assicurazione con Mangano anche l’agente assicurativo viene mandato via. E nonostante il senatore forzista tenti di distanziare l’allontanamento del boss dal proprio, chiarisce Domenico Gozzo, è in quello stesso periodo, alla fine del 1976, che Dell’Utri chiede una promozione all’amico Silvio, ma viene cacciato.
<> gli dice l’imprenditore, già oppresso come testimonieranno le indagini, da una situazione che si fa sempre più pesante e che i periodici versamenti fatti dalla Fininvest a Cosa Nostra – tramite Dell’Utri e Cinà – non sembrano calmare.
Dal canto suo Dell’Utri confermerà che la motivazione del suo licenziamento fu quella e alla signora Bresciano, moglie del titolare della Bresciano Costruzioni ammetterà: <>.
Sette anni più tardi, però, Dell’Utri rientrerà nel gruppo Fininvest. E ci rientrerà dalla porta principale, come dirigente di una delle società più importanti del gruppo.
Che cosa succede in quei sette anni? Perché Berlusconi decide di richiamare Dell’Utri con così tanti onori?
Per riuscire a rispondere a questa domanda, prosegue Gozzo, <>.

Il business delle antenne
In quegli anni, tra il 1977 e il 1983, l’imprenditore Silvio Berlusconi getta le basi di quello che diventerà uno dei più grandi imperi finanziari del nostro Paese. A seguito dell’approvazione di una legge che permette ai privati l’acquisto di reti televisive su scala regionale – dando il via alla televisione commerciale italiana – l’imprenditore si accaparra diverse emittenti in tutta Italia. E tramite la cosiddetta cassettizzazione trasmette contemporaneamente uno stesso programma su tutto il territorio nazionale. In Sicilia le antenne che entrano a far parte del gruppo Berlusconi sono tre: Rete Sicilia srl, Trinacria TV e Sicilia Televisiva, che trasmetteranno, nell’ordine i programmi di Canale5, Italia1 e Rete4. E che in seguito all’approvazione della legge Mammì, nel 1991, verranno fuse in queste tre ultime società.
Ad interessarsi per l’acquisizione di tali frequenze, racconta Francesco Di Carlo, è anche la mafia, contattata dall’imprenditore tramite Dell’Utri il quale interessa Gaetano “Tanino” Cinà.
<>, poi <>, <>.
Pm: Lei ha parlato di un’unica soluzione?
<>. Perché <>.
La costituzione della Rete Sicilia srl risale al 21 dicembre del 1979. Alla presidenza del consiglio di amministrazione c’è Antonino Inzaranto, imprenditore di Termini Imerese, cognato della nipote di Tommaso Buscetta che, nel 1980 era ancora importante uomo d’onore di Cosa Nostra.
<>. Unico ruolo: ricercare i siti per l’installazione delle antenne e firmare il bilancio.
Discorso simile per le altre due emittenti.
Trinacria TV è <>; è <>; conta tra i componenti della sua compagine sociale diversi soggetti in contatto con altri elementi della criminalità organizzata e tra questi Enrico Arnulfo, già sindaco di una società appartenente e facente capo al faccendiere Flavio Carboni e di altra società legata a Salvatore Buscemi, Franceco Bonura e Salvatore Sbeglia.
Sicilia Televisiva, infine, è avviata da Filippo e Vincenzo Rappa, <>.

Tutte le holding
del Presidente
Nello stesso periodo, e precisamente tra il 1975 e il 1983, 113 miliardi di lire di provenienza sconosciuta affluiscono nelle 22 holding Fininvest, che diventeranno poi 37.
I misteriosi introiti finanziari, ricostruisce il pm Gozzo rifacendosi alla deposizione del consulente tecnico dell’accusa Francesco Giuffrida (funzionario della Banca d’Italia), sono da ordinare in tre gruppi essenziali. Dei quali <>.
La Finanziaria di investimento Fininvest, che alla data della sua costituzione, nel marzo del 1975, disponeva di un capitale di 2 miliardi di lire interamente versato, ha già effettuato alla data dell’incorporazione alcune operazioni di aumento di capitale e di sottoscrizione di prestiti obbligazionari fino ad un importo che avrebbe dovuto portare il capitale sociale, una volta sottoscritto, a 30 miliardi di lire il 2 dicembre del ’77.
Anche Fininvest Roma, aggiunge il pm, viene articolata in 25 holding, le quali effettuano aumento di capitale nei limiti di due miliardi di lire in modo tale da non dovere richiedere alcuna autorizzazione al Ministero del Tesoro.
<>, incalza Gozzo nel corso di una delle udienze, in risposta alle considerazioni del consulente tecnico della difesa, dottor Paolo Jovenitti, che “non riterrà opportuno” analizzare questi dati.
E in particolare, riprende il pm, se si considera che parte delle somme viene versata addirittura in contanti. Tanto che all’appello della consulenza tecnica effettuata dal dottor Giuffrida, consulente dell’accusa, mancherebbe l’origine di 16 miliardi e mezzo di lire versati nel 1977 alla Fininvest, appunto, in contanti e in modo frazionato in diversi giorni successivi.
Oltre a questa, tante sono le manovre finanziare non ricostruibili per l’assenza di documenti contabili nelle varie filiali bancarie anche perché molti sono i casi, ricostruisce l’accusa, in cui le operazioni delle holding venivano inserite dagli istituti bancari come “servizi per parrucchieria”, cosa che permetteva loro, come spiegato in udienza da Giuffrida, di <>.
Per non parlare dei vari prestanome e delle cosiddette società <> quali le già citate Ponte e Palina, che nei loro pochi mesi di vita sono state utilizzate esclusivamente per compiere giro conti illogici dal punto di vista bancario, poiché il denaro transitava, nello stesso giorno e per pari importo, in più società dello stesso gruppo per poi ritornare al punto di partenza. Giroconti, sottolinea Gozzo, dell’ammontare di miliardi.
E mentre Jovenitti parla di modello di gestione aziendale <> il pm tuona: <>, e ricorda ai giudici come il professore, nel corso della sua deposizione dibattimentale, aveva tra le altre cose dimostrato di non conoscere i contenuti della consulenza tecnica effettuata in precedenza da Giuffrida e di non essere super partes. Fu lui, infatti, il consulente del Cavaliere al processo milanese sui terreni di Macherio. La sua giustificazione: <>. Strano, incalza, Gozzo, poiché <> e <>. Poi conclude: <>.
Alla fine, però, Jovenitti è costretto ad ammettere. Certe operazioni, dice, erano <> e Berlusconi <>. <>.
Ma perché?
Perché a quasi trent’anni di distanza da quei flussi, ora che gli eventuali reati finanziari e fiscali sono ormai prescritti non c’è trasparenza sui capitali iniziali della Fininvest e nemmeno sui soci di Berlusconi. Che cosa si vuole coprire?
Alla domanda potrebbero rispondere il pentito Francesco Di Carlo e il finanziere Filippo Alberto Rapisarda, i quali avevano riferito sui finanziamenti della mafia, e precisamente di Bontate, alla base dell’ascesa imprenditoriale di Berlusconi.
Oppure i risultati delle indagini condotte a Palermo contro gli stessi Dell’Utri e Berlusconi, indagati per riciclaggio in concorso con i boss Stefano Bontate e Mimmo Teresi. In quell’occasione vennero sequestrati libri soci e libri giornale delle società Fininvest e si scoprì che l’imprenditore aveva omesso di dichiarare, tra le altre cose, che quote rilevanti di alcune di queste erano intestate alla società Par.Ma.Fid. spa che in quel periodo gestiva i beni di Antonio Virgilio. Il quale sembrava riciclare capitali per conto dei clan di Giuseppe e Alfredo Bono, Salvatore Enea, Gaetano Fidanzati, Gaetano Carollo, Carmelo Gaeta e altri boss che gestivano a Milano il traffico internazionale di stupefacenti e i sequestri di persona. In quel periodo Virgilio ed Enea intrattenevano rapporti con Dell’Utri e solo il Virgilio con lo stalliere di Arcore Vittorio Mangano. Il Virgilio, inoltre, era intestatario di conti correnti presso la Banca Rasini, definita dalla Procura di Milano crocevia degli interessi di Cosa Nostra negli anni Sessanta e Settanta e il cui direttore generale, Antonio Vecchione, subentrato a Luigi Berlusconi, venne arrestato nell’ambito di un’operazione contro boss e colletti bianchi.
La prova dei passaggi diretti di quei soldi da soggetti mafiosi al gruppo Fininvest non esiste, osserva infine Gozzo, però è vero <>.
Tra queste, da non sottovalutare quella di Tullio Cannella, il quale riferì che Giacomo Vitale, cognato del Bontate, era intenzionato a recuperare i soldi del boss in seguito alla sua uccisione avvenuta nel 1981 nel corso della guerra di mafia che portò i corleonesi alla leadership di Cosa Nostra. Quegli stessi soldi che tramite la P2 sarebbero finiti in gruppi finanziari imprenditoriali del centro nord.
<>. <>.

Massoneria
e speculazione edilizia
Certo è invece che in quegli stessi anni, più precisamente nel medesimo periodo in cui Dell’Utri va via da Arcore, anche Berlusconi si iscrive alla massoneria. Lo si evince ancora dagli atti, in particolare quelli della cosiddetta Commissione P2 presieduta dall’on. Tina Anselmi, che riporta le dichiarazioni rese dallo stesso Berlusconi all’autorità giudiziaria milanese il 26 ottobre del 1981. L’anno in cui scoppia il caso P2. <>.
Un approccio di convenienza che ha un suo sbocco, se pensiamo che il gruppo Fininvest, grazie a dirigenti piduisti di varie banche fra cui il Monte dei Paschi di Siena (oggetto anche della consulenza tecnica del dottor Giuffrida) e la BNL otterrà fidi spropositati.
Legato a queste banche il piduista Licio Gelli, in rapporti con Flavio Carboni a sua volta in contatto con Cosa Nostra.
Curioso il fatto che in quegli anni la massoneria gioca un ruolo centrale non solo per Berlusconi, ma anche per la mafia di Bontate.
Il quale, fin dagli anni Settanta, sottolineano i pm <>, tramite l’inserimento di alcuni soggetti - due per famiglia ci dice Calderone – nelle logge deviate. Tra questi Benedetto Santapaola (lo rivela il pentito catanese Maurizio Avola), il fratello del Calderone, Totò Greco, Bontate e Giacomo Vitale. Quet’ultimo, spiega invece Gioacchino Pennino, <>, e aveva avuto rapporti con Licio Gelli, <>. <>.
L’intenzione di Bontate, sono le parole di Francesco Di Carlo, era quella di <>.
D’accordo il Vitale che a Gaspare Mutolo dichiara: <>.
Ed <>. Quella grande speculazione edilizia denominata “Olbia 2” che vede il Cavaliere e Cosa Nostra in “rapporti d’affari” tramite un unico intermediario: Flavio Carboni, <>. Il quale, spiega l’ispettore dello Sco Tiano, investiva in Sardegna i proventi del traffico di stupefacenti (vedi Pizza Connection e San Valentino) in qualità di tramite di Pippo Calò.
Degli interessi del Calò nell’isola hanno testimoniato numerosi collaboratori di giustizia tra cui Gaspare Mutolo, Francesco Di Carlo, Tommaso Buscetta, Francesco Scrima, Emanuele Di Filippo, Salvatore Cancemi, Salvatore Cucuzza (apprese degli interessi in Sardegna dallo stesso Calò), Angelo Siino. Ai quali si aggiunge Antonio Mancini, collaboratore proveniente dalla Banda romana.
L’affare Olbia2, spiega ancora Gozzo, consiste nell’acquisto, da parte di Berlusconi, di terreni venduti proprio dal faccendiere Flavio Carboni, che sarà successivamente coinvolto nella fuga e nella misteriosa morte di Roberto Calvi a Londra.
Tali terreni vengono passati a 12 società, le cosiddette “dodici sorelle”, delle quali 4 faranno capo a Berlusconi, 4 ai prestanome di Pippo Calò, 4 a Carboni.
Il 27 agosto del 1982, interrogato dal pm Dell’Osso, a Milano, il Cavaliere confermerà i suoi rapporti con Carboni dichiarando che l’unica possibilità di insediamento sull’isola <>. L’acquisto dei terreni, continua, è stato <>.
Un’operazione estremamente pericolosa per l’immagine massmediatica del Cavaliere, già al centro di non poche polemiche per i suoi passati rapporti con Mangano, per l’iscrizione alla P2 e, ora, per il suo ampio coinvolgimento con il Carboni, soggetto certamente in rapporti con Cosa Nostra e con la Banda della Magliana.
<>.
E’quindi questo il motivo per cui Berlusconi, nel 1983, affidò a Dell’Utri Publitalia, la cassaforte delle televisioni del gruppo Fininvest, quella senza la quale, come hanno riferito molti testi, l’avventura televisiva berlusconiana non sarebbe stata possibile?

Il ritorno a casa Arcore
Di sicuro, lo abbiamo già visto, non sono le doti imprenditoriali dell’imputato a far cambiare idea al Cavaliere.
Durante gli anni della sua lontananza da Arcore e <>, Dell’Utri, trova impiego in un altro gruppo imprenditoriale, la Bresciano Costruzioni, all’interno del quale svolgerà la medesima funzione di rappresentanza degli interessi mafiosi che aveva svolto ad Arcore, ma che egli stesso porterà al fallimento. Bancarotta fraudolenta, si legge negli atti riferiti alla Bresciano, appartenente al costruttore e finanziere siciliano Filippo Alberto Rapisarda. Anch’egli noto agli inquirenti per i suoi rapporti di amicizia con Vito Ciancimino e il clan Cuntrera-Caruana, al quale chiederà asilo quando le indagini sulla bancarotta colpiranno lui e Dell’Utri. Nel 1980 incriminato a piede libero e sottoposto a indagini da parte della Criminalpol di Milano, che intercetta una sua telefonata con Mangano nella quale si fa riferimento all’affare di un <> che fa per lui e per il quale occorrono <> che lui non ha. Fatteli dare dal tuo amico Berlusconi è il commento di Mangano, ma quello, risponde Dell’Utri <<’n sura>> (non suda = non sgancia).
Nell’ultima intervista rilasciata prima della sua morte, il giudice Paolo Borsellino farà riferimento proprio a questa intercettazione, spiegando che era accertato dal maxiprocesso, che quando Mangano parlava di cavalli intendeva riferirsi a partite di droga.
E sempre di droga si parla quando Marcello Dell’Utri, ancora nel 1980, partecipa alle nozze a Londra di Jimmy Fauci, trafficante per conto dei Caruana, che si muove fra l’Italia, la Gran Bretagna e il Canada. Alla festa, alla quale prendono parte tra gli altri Francesco Di Carlo e Mimmo Teresi, Dell’Utri dichiarerà di essere capitato per caso: <>.
E’ questo il Marcello Dell’Utri che nel 1983 fa il suo ritorno trionfale ad Arcore.
All’indomani della sanguinosa guerra di mafia che vede l’affermarsi di una nuova leadership, quella dei corleonesi Riina e Provenzano, che si pongono ai vertici di Cosa Nostra dopo aver ucciso i boss Bontate, Teresi e Inzerillo.
Al suo rientro Dell’Utri è chiamato subito a ristabilire la quiete in un clima di grande tensione.
In sua assenza, infatti, i Pullarà – reggenti della famiglia di Santa Maria del Gesù dopo la morte di Bontate – avevano ereditato quel rapporto privilegiato con l’imprenditore. Mutando, però, quella relazione di impresa amica che aveva caratterizzato il rapporto mafia-gruppo Berlusconi negli anni Settanta. I Pullarà, evidenziano i collaboratori di giustizia – tra cui Calogero Ganci, Francesco Paolo Anzelmo, Antonino Galliano, Salvatore Cucuzza, Francesco Scrima, Vincenzo La Piana, Angelo Siino – erano estremamente onerosi e violenti nelle loro pretese. <> (lasciarlo in mutande ndr.), è la spiegazione di Siino, alla quale si aggiunge quella di Ganci e Anzelmo: il Cavaliere si sentiva <>, che <>.
E mentre in carcere i membri della famiglia Pullarà si scontrano duramente con Mangano (arrestato per mafia e droga nel 1983 da Falcone e Borsellino) proprio per avere l’esclusiva di quel contatto Dell’Utri si rivolge all’amico Cinà nel tentativo di ristabilire quel rapporto di impresa amica.
E’ quest’ultimo a farsi portavoce delle sue richieste presso Pippo di Napoli e quindi Ganci e Riina.
Che sulle prime si infuria perché i Pullarà, racconta Galliano, <> e poi decide di “mettersi nelle mani” personalmente Dell’Utri, per il tramite di Cinà e di Napoli continuando, però, a corrispondere ai Pullarà e alla famiglia di Santa Maria del Gesù una parte della somma versata dall’imprenditore.
Secondo quanto dichiarato da Francesco Paolo Anzelmo, poi confermato da Calogero Ganci, Salvatore Cancemi e altri la cifra <>. (<> aggiunge Galliano) Sul tramite: <
  • >.
    Ma perché Riina decide di subentrare direttamente in quel rapporto?
    Il motivo, è la spiegazione di Gozzo, non è sicuramente legato alla riscossione dei soldi, ma a una complessa strategia politica che prevedeva l’abbandono dell’ormai titubante Scudo Crociato per agganciare il Psi. La volontà dell’associazione, come emergerà da decine di indagini, era addirittura quella di arrivare ai vertici del partito e, quindi, a Bettino Craxi che era allora Presidente del Consiglio.
    Per raggiungere i propri scopi, quindi, e <>, spiegano Anzelmo e Galliano – il primo per averlo appreso da Mimmo Ganci - l’organizzazione mafiosa riprende con la strategia degli attentati e delle minacce che aveva caratterizzato gli anni Settanta con Mangano.
    E come con Mangano riparte da via Rovani.

    Quelle pesanti
    intercettazioni
    E’ sicuramente la prova più importante e significativa presentata dai pm nel corso del processo.
    Una serie di sei telefonate, intercettate nel 1986 in casa Dell’Utri dalla procura di Milano nell’ambito del procedimento per il fallimento della Bresciano Costruzioni.
    Nelle prime tre l’imputato parla con l’amico Silvio, nelle altre con Tanino Cinà.
    Il tema delle conversazioni è l’attentato mafioso del 28 novembre del 1986 alla sede Fininvest di via Rovani 2 sul quale il Cavaliere non ha dubbi. <>, esordisce nella prima delle sei telefonate e al suo interlocutore, l’amico Marcello, spiega: <>. Della medesima opinione del Cavaliere Fedele Confalonieri, presente ad Arcore al momento dello scoppio.
    Questa certezza, però, risulterà infondata il giorno successivo quando Dell’Utri, a seguito di una conversazione intrattenuta con il Cinà, telefona nuovamente a Silvio. <> che possa trattarsi di Mangano.
    Berlusconi non ha bisogno di ulteriori spiegazioni.E dal tenore della conversazione appare evidente che non solo conosce il Tanino di cui gli parla Dell’Utri, ma gli attribuisce, così come il Dell’Utri stesso, una forte competenza in fatti di mafia.
    Si rasserena poi completamente quando l’amico Marcello aggiunge: <>, <>.
    Affermazione, osservano i pm, <> e che conferma le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia in merito al progetto mafioso di avvicinare Cinà a Dell’Utri e Berlusconi.
    Dichiarazioni che riguardano anche le successive minacce.
    <>. Una conferma arriva anche dall’Anzelmo che aggiunge: <>.

    Le regalie
    alla mafia
    E per sgombrare ulteriormente il campo dal dubbio che quello tra Dell’Utri, Berlusconi e Cinà potesse essere un rapporto tra estortore ed estorti i pm fanno ascoltare in aula quella che definiscono <>. Una telefonata nel corso della quale Cinà parla di una cassata spedita a Dell’Utri e di un’altra, del peso di 11 chili e 800 grammi, che intende inviare al Cavaliere e sulla quale, dice, ho fatto scrivere <>.
    E <>.
    Sul punto, alle dichiarazioni <> rese in tutti questi anni dai collaboratori di giustizia e allo sconcertante contenuto delle intercettazioni appena descritte si aggiunge anche una prova documentale.
    Il libro mastro della famiglia di San Lorenzo, fatto ritrovare da Giovambattista Ferrante presso le case Ferreri, che dimostra non solo il pagamento dei soldi da parte della Fininvest a Cosa Nostra, ma anche che quelle somme erano versate a titolo di donazione.
    A tenere il libro mastro, ha spiegato il pentito, era Salvatore Biondo “il lungo” che aveva il compito di gestire le estorsioni e che sarebbe successivamente diventato reggente della famiglia di San Lorenzo. Tale “registro del racket” era costituito da due agende <>.
    Da una parte si legge: “Can.5 n. 8”, dall’altra, al n. 8 “Regalo 990/5mila”. Spiegazione di Ferrante: Canale 5 pagò, nel 1990, 5 milioni a Cosa Nostra. In merito alla dicitura regalo: <>. Altre ditte facevano regali di questo genere? <>. Poi continua: <>. E conclude: <>.
    Altri collaboratori, però, allungheranno questo periodo. Tra questi Salvatore Cancemi, anch’egli testimone oculare della consegna di quelle somme, che dice di avere visto <>, che provenivano <> almeno sino al 1993, mentre Giusto di Natale parlerà della metà degli anni 90.
    Queste agende, sottolinea il pm, presentate in altro processo hanno portato alla condanna definitiva di una cinquantina di uomini d’onore.

    Gli anni
    della transizione
    Nel 1987 si tengono le elezioni politiche. Per la prima volta nella sua storia Cosa Nostra appoggia, nella persona dell’on. Martelli, un solo partito, il Psi, <>.
    A raccontarcelo decine di pentiti che parlano di un ordine <> di votare per i socialisti. <>. Notevoli malumori si registrano infatti all’interno dell’associazione mafiosa e perfino ai vertici, aggiunge Giuffré, poiché <>.
    Contrarietà che si dimostra fondata, visto il risultato non soddisfacente raggiunto dal Psi, in seguito al quale, però, la mafia non molla.
    Al contrario, ritorna alla carica con Berlusconi e gli rivolge nuove minacce.
    E’ il 1988 quando il Cavaliere, in un colloquio intercettato dagli inquirenti, si confida con l’amico immobiliarista Renato della Valle. <>, <>.
    Ma quei “casini” non sono destinati a finire.
    In quegli anni di transizione che attraversa il nostro Paese, riprende Ingroia, <>, e che attraversa il mondo intero <> sempre più forti sono le ripercussioni che si determinano nell’universo mafioso. <>. E ormai fortemente danneggiato dalle conseguenze più negative del maxiprocesso e dalla condanna in primo grado di tantissimi mafiosi incastrati dalle dichiarazioni di quei pentiti che hanno fatto crollare, per la prima volta, il muro dell’omertà e il mito dell’impunità di Cosa Nostra.
    In questo periodo sempre più forte si avverte la necessità, da parte dei vertici dell’associazione criminale, di ricercare nuovi “canali” verso i quali orientare la propria capacità di dirigere i consensi elettorali. Agganci più affidabili di quanto non si fossero rivelati quelli del passato.
    E per raggiungere tale scopo Riina continua ad avvalersi di quel contatto, coltivato fin dagli inizi degli anni Ottanta, con la galassia Fininvest.
    Giovanni Brusca, spiega Angelo Siino, <>. <>, <>.
    L’avvertimento soft di via Rovani e la minaccia che spaventò sul serio il Cavaliere nel 1988 non erano bastati.
    E’ in questo contesto che prende il via una serie di attentati incendiari e intimidatori in danno dei magazzini Standa di Catania. Sulle prime l’obiettivo è estorsivo e non si rivolge solo alla Standa, ma anche al gruppo Sigros – La Rinascente, facente capo alla Fiat.
    Successivamente, prosegue Ingroia, dopo un proficuo scambio di idee fra i capifamiglia palermitani e catanesi l’obiettivo si amplia. <>.
    Tanto che il pentito Filippo Malvagna, nipote del noto boss mafioso Giuseppe Pulvirenti detto ‘u malpassotu’ dichiara: <>. L’obiettivo era <>, <>, aggiunge Claudio Severino Samperi, esecutore materiale degli atti incendiari, ma le reali motivazioni di tali atti le <>, <> nonostante <>.
    Anche Antonino Giuffré, all’epoca capomandamento, riceve un invito da parte del Riina <>. Perché il suo obiettivo, aggiunge, era quello di <>.
    Negli ambienti milanesi il messaggio viene recepito. Mentre il gruppo Sigros ammette agli inquirenti di avere subito delle estorsioni ed indica perfino lo specifico importo delle tangenti pagate, i responsabili nazionali Standa giurano di non sapere nulla e i rappresentanti siciliani del gruppo forniscono una versione estremamente riduttiva e, a detta dei pm, assolutamente incredibile dei fatti.
    Agli atti intimidatori segue intanto una sorta di braccio di ferro tra la mafia e il gruppo Berlusconi.
    Giuseppe Pulvirenti parla dell’idea maturata all’interno di Cosa Nostra, e successivamente abbandonata, di <>, Samperi racconta invece che Salvatore Tuccio (noto esponente della famiglia mafiosa catanese di Santapaola), <>, <> del tipo <>. Poi, conclude, circa un paio di mesi più tardi <>.
    A mettere a posto le cose, è la testimonianza concorde di molti collaboratori di giustizia, e in primo luogo Filippo Malvagna, è intervenuto Dell’Utri.
    <>.
    Nei due mesi di trattativa almeno due sarebbero gli incontri del braccio destro di Silvio Berlusconi con gli esponenti della mafia locale. Il primo con Salvatore Tuccio, a Milano, in esito al quale vengono offerte allo stesso allettanti prospettive di reinvestimento del denaro della “famiglia” di Catania. L’altro, quello decisivo, in provincia di Messina, con Aldo Ercolano (noto esponente della famiglia mafiosa di Santapaola, a Catania) e Nitto Santapaola in persona.
    <>, racconta Maurizio Avola, pentito catanese, Dell’Utri <>.
    Poco prima di quell’incontro, Aldo Ercolano, all’odierno pentito Francesco Pattarino, al tempo rappresentante della famiglia di Catania per Siracusa, afferma: <>.
    <>. <>.
    A questo punto viene siglato l’accordo. <>.
    Ma cosa ha promesso Marcello Dell’Utri?
    E come ha intenzione di agevolare i “progetti politici” di Cosa Nostra?

    I nuovi referenti
    Nel medesimo periodo, il 1991, Vittorio Mangano, in carcere dall’83, torna in libertà. E tenta di riappropriarsi dell’esclusiva dei vecchi rapporti con Dell’Utri e Berlusconi. Ma Salvatore Riina non glielo permette. Tramite Salvatore Cancemi, in rapporti intimi con lui, gli manda a dire di farsi da parte.
    <>. Ma Vittorio, prosegue Cancemi, <>. Gli ricorda quindi gli anni della sua permanenza ad Arcore, <>, poi chiede: <>. Si convince soltanto quando il Cancemi gli ripete: <>.
    L’anno successivo viene emessa la sentenza di Cassazione del maxiprocesso. Le condanne ai boss di Cosa Nostra, richieste dai giudici del pool antimafia di Falcone e Borsellino, non vengono annullate come Riina sperava. Alla sbarra, con sentenza definitiva, centinaia di mafiosi.
    La mafia, ferita, da il via a un violento attacco allo Stato. Mentre a Milano infuriano le indagini su Tangentopoli che chiudono il capitolo Dc in Italia, uccide i nemici giurati Falcone e Borsellino e realizza un programma di destabilizzazione politica, che ha come preliminare obiettivo l’azzeramento dei rapporti con i referenti politici tradizionali, ritenuti ormai irrimediabilmente inaffidabili. Uccide Salvo Lima e Ignazio Salvo e programma l’assassinio di Martelli, Mannino e di un figlio di Andreotti.
    Il 15 gennaio del 1993 Riina viene arrestato a Palermo.
    Cosa Nostra, però, non si ferma. Il 27 maggio del 1993 un’autobomba scoppia in via dei Georgofili, a Firenze. 5 i morti. Il 27 luglio altre due bombe seminano terrore e morte a Milano, in Via Palestro e a Roma, contro le basiliche di San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro. Ancora 5 le vittime.
    Marcello Dell’Utri, “canale” preferenziale di Cosa Nostra verso quel mondo imprenditoriale e politico oggetto di forti attacchi da parte dell’organizzazione criminale non viene annoverato tra quegli “amici” della mafia ritenuti ormai inaffidabili. E non viene toccato.
    Al contrario, sottolinea Ingroia, è un alleato sul quale contare per avere un lungo e luminoso avvenire. E le sue continue relazioni con mafiosi di rango, in quegli anni, sono dimostrate anche da una recente sentenza di condanna che attesta come egli continuasse a compiere atti estorsivi avvalendosi dell’intervento di un soggetto mafioso della portata di Vincenzo Virga. E dei suoi legami con soggetti vicini ai fratelli Graviano, capimafia fra i protagonisti più assoluti della stagione stragista del 1993.
    Dell’importanza di Dell’Utri all’interno di Cosa Nostra, in quel delicato momento storico, parla Salvatore Cancemi, rivelando una confidenza ricevuta da Raffaele Ganci da far risalire a poco prima della stagione stragista del 1992-93. <>.
    E’ il pentito a ricollegare questo discorso con quello dello stesso Riina che ordinandogli di dire a Mangano di farsi parte aveva detto: <>.
    Il pm, allora, gli chiede: <>.
    Cancemi risponde: << E’ una cosa che qualunque cosa io ci chiedo ce l’ho nelle mani e sono a disposizione o loro chiedono e io sono a disposizione. Questo è il significato che c’è una cosa reciproca>>.
    Il pm chiede ancora: questa persona importante è Marcello Dell’Utri?
    Il collaboratore risponde: <>.
    <Ma la realtà sta cambiando assai rapidamente e urgono decisioni altrettanto rapide. In questo contesto, matura all’interno di Cosa Nostra una strategia della tensione finalizzata a ristrutturare i “rapporti con la politica”, attraverso l’azzeramento dei vecchi referenti politici e la creazione delle condizioni più agevoli per l’affermazione di nuovi soggetti politici, che tutelassero più efficacemente gli interessi del sistema mafioso>>.
    L’evento che segna la fine un’epoca di quei vecchi rapporti, interviene ancora Giuffré, è l’omicidio dell’on. Lima. Un atto, spiega, con il quale si intendeva chiudere un rapporto <>. <>.

    Forza Italia
    Nel 1992, quindi, Dell’Utri il <>, come lo definiscono i pm, il <>, <> e che mai si era interessato di politica, inizia a farsi protagonista ed artefice, in prima persona, di iniziative politiche legate al mondo Fininvest. Coinvolge in primo luogo il democristiano Ezio Cartotto, vecchio amico e consulente di Berlusconi, analista politico, per ragionare sulle possibili prospettive per il gruppo Fininvest e, a tal fine, gli commissiona una serie di conferenze sul tema. Cartotto viene contattato da Dell’Utri in gran segreto, ed è lui stesso a raccontarlo ai pm. <>. Ma <>. Per Dell’Utri, continua, vi era la necessità <>. <>. Più specifico Giovanni Mucci, collaboratore di Cartotto: <>.
    E mentre l’imputato, nell’intento di ripararsi dalle dichiarazioni dei pentiti, continuerà a dire che fu Berlusconi, <> a comunicargli l’iniziativa, lo smentiranno una serie di altri testi, <>, come li definiscono i pm, tra cui gli amici Enrico Mentana, Maurizio Costanzo e Gianni Letta, citati dalla difesa.
    Tra le altre cose, Letta ricorda il suo stupore nell’aver appreso che Berlusconi, nonostante il parere contrario alla sua discesa in campo da parte sua e di Fedele Confalonieri preferì l’opinione di Dell’Utri. che sul Cavaliere aveva, evidentemente, una notevole influenza.
    <>. Pm: <>. Letta: <>.
    Si spinge ancora più in là Enrico Mentana che aggiunge: mentre ancora vi era un dibattito interno al gruppo (di opinione contraria all’avventura politica anche Maurizio Costanzo) Dell’Utri era già passato alla fase organizzativa. <>, sono le sue parole, <> <>, in particolare il <>, <>.
    Nel 1993 Dell’Utri tenta però anche un’altra via. In quell’anno i boss ancora legati alla strategia stragista di Riina fondano “Sicilia Libera”. Una iniziativa politica che dovrebbe collegarsi ad una serie di leghe spuntate un po’ ovunque nel meridione, la cui paternità è attribuibile ad ambienti della massoneria deviata e della destra eversiva.
    Sul fronte di Cosa Nostra, spiega infatti Giuffré, l’arresto di Riina determina <> e <>, sicché si creano due schieramenti: da un lato Bagarella, Brusca e i Graviano, che propendono per la prosecuzione della strategia stragista, dall’altro Provenzano, Aglieri, Greco, Raffaele Ganci e lo stesso Giuffré. I quali prediligono invece una soluzione trattativista.
    Sono i primi i principali promotori di “Sicilia Libera”. E in particolare Leoluca Bagarella che, in alternativa alle scelte di Provenzano e per evitare l’errore già commesso da Riina – quello di dare troppa fiducia ai politici – medita di creare un movimento politico nuovo portato avanti direttamente da uomini di Cosa Nostra. Da questo progetto, racconta Giuffré, <>, il gruppo dello schieramento più vicino a Bernardo Provenzano, <>. Già nel passato, siamo attorno agli anni ’82-’83 continua, <>, ma <> <> avevano avuto un’idea simile che <>. Alla fine, anche Bagarella si convince e abbandona l’idea.
    Dell’Utri dal canto suo, dopo quella breve parentesi torna a concentrarsi completamente sul progetto a cui da mesi lavora con Cartotto.
    Nella seconda metà del 1993, la notizia della discesa in campo di Berlusconi comincia a girare all’interno di Cosa Nostra. Proprio nello stesso periodo in cui, ricorda ancora Cartotto, il Cavaliere si incontra con Bettino Craxi, l’uomo che Cosa Nostra voleva agganciare negli anni precedenti, il quale lo spinge <> facendogli prendere la decisione definitiva.
    Iniziano per l’organizzazione mafiosa, prosegue Giuffré, un periodo di <>,<>. Si fa una sorta di sondaggio interno, uno <> che voleva appurare con sicurezza <> degli agganci. Che dovevano servire a <>. I mali, precisa, sono <>. C’erano poi <>, e la <> esercitata <>. Infine <>. <>.
    Fra i capimafia, comincia a diffondersi un senso di rinnovata fiducia. Sembrano essere stati trovati i giusti contatti, tra i quali Marcello Dell’Utri.
    Di lui Giuffré parla insieme a Pietro Aglieri e Carlo Greco. <>. Alla fine il Provenzano <> con Cosa Nostra di dare il proprio assenso ad appoggiare il nuovo soggetto politico per il quale vi erano stati i contatti con Dell’Utri. <>. <>. Perché <>.
    Nel novembre del 1993, con il fallito attentato allo stadio Olimpico di Roma, finisce bruscamente la lunga stagione stragista di Cosa Nostra.
    L’accordo è stato quindi raggiunto? Ma quali sono le garanzie ricevute da Provenzano?
    Il patto, spiega ancora Giuffré, prevede da una parte la <>, che <> si sarebbe sistemato tutto; dall’altra l’impegno a dare appoggio elettorale al partito e a porre fine alla strategia stragista. <>. <>.
    Numerose le intercettazioni telefoniche e numerosissime le dichiarazioni dei collaboranti che confermano la ricostruzione di Giuffré. Che parlano di consensi elettorali da indirizzare verso i candidati del nuovo movimento politico Forza Italia. Tra questi Antonio Calvaruso – che venne motivato da Leoluca Bagarella con l’assicurazione che da tale appoggio sarebbero derivati benefici per Cosa Nostra; Emanuele di Filippo e Pasquale di Filippo – la cui fonte è ancora Bagarella; Tullio Cannella, Antonino Galliano, Giusto di Natale e Francesco La Marca. Questi ultimi due confermano, tra l’altro, l’importante ruolo rivestito da Mangano nella stipula dell’accordo pre-elettorale, che anche Giuffré aveva affermato.
    E dei suoi rapporti con Dell’Utri.
    Rapporti peraltro testimoniati dalle agende di Dell’Utri, tenute dalla segretaria Ines Lattuada e sequestrate nell’ambito di un’inchiesta a suo carico sulle false fatture di Publitalia, presso la quale rivestiva la carica di amministratore delegato. Su quei fogli, più di una volta è annotato il nome di Mangano. In particolare il 2 novembre del 1993 (<>) e il 30 novembre 1993 (<>). Annotato, più volte, anche il nome di Gaetano Cinà. Con entrambi, l’imputato ammette di aver mantenuto rapporti, ma se per il secondo dichiara di non essere a tutt’oggi convinto che egli possa essere uomo d’onore, per il primo si giustifica dicendo: <>.

    I rapporti continuano
    Ma il collaboratore Vincenzo La Piana, fino al ’97 vicino alla famiglia di Porta Nuova e legato a Mangano sin dagli anni Settanta riferirà ben altro. I rapporti tra l’odierno senatore e lo “stalliere di Arcore”, dichiara, erano ancora così profondi che il senatore si impegnerà con ogni mezzo per alleggerire la sua posizione carceraria, aggravatasi, dopo l’arresto del 1994, nel 1995 in seguito all’applicazione nei suoi confronti del regime del 41 bis e al suo trasferimento dal carcere di Termini Imerese a quello di Pianosa.
    La Piana ricorda: <>.
    Tre sono gli incontri con il senatore narrati dal collaboratore. Nel secondo, specifica, Dell’Utri disse: <<’U cavaliere per ora è bersagliato. Comunque però ci interessiamo lo stesso perché merita il nostro interessamento>>. Quello di Mangano, aveva quindi specificato il politico, era diventato un <>.
    E a dimostrare questa affermazione, intervengono i pm, varia documentazione che testimonia come nella seconda metà del 1995 alcuni deputati visitarono il carcere di massima sicurezza di Pianosa e uno di questi si intrattenne con Vittorio Mangano. A seguito del colloquio, lo si evince da un dispaccio Ansa, si montò un caso politico sulla detenzione del boss, presentato in quell’occasione come persona le cui condizioni di salute erano incompatibili con il regime carcerario.
    Di tutt’altro genere il terzo incontro narrato dal La Piana. Che si inserisce nel contesto di un traffico di stupefacenti, organizzato dall’odierno collaboratore e Rosario D’Agostino, grosso produttore di cocaina residente in Colombia. Per il traffico, ricorda il La Piana, <> <>.
    <>. L’importo richiesto <>.
    L’incontro, ricorda il pentito, avviene all’interno di un capannone. Dove il Di Grusa si apparta con il senatore. Il Di Grusa <>. Successivamente il Di Grusa riferisce al La Piana: <>.
    E anche le dichiarazioni del La Piana, specificano i pm, sono confermate da moltissimi riscontri incrociati, tra i quali le risultanze del traffico telefonico, esaminate dal prof. Gioacchino Genchi, dei soggetti interessati alle vicende da lui narrate; l’identificazione dei luoghi nei quali sarebbero avvenuti i diversi incontri; le rivelazioni dei collaboratori di giustizia. Tra i quali gli stessi Cucuzza e Zerbo nonché Giovanni Brusca.
    Il Mangano, è il racconto di Brusca, <>. Tale impresa, sottolineano i pm, non può essere che quella di Sartori Natale il quale, è emerso dalle indagini della Dia di Milano, svolgeva lavori presso Publitalia 80 e nel contempo proteggeva la latitanza del Di Grusa, garantendo recapiti, utenze telefoniche e necessari documenti.

    Le elezioni
    del 1999
    Il 25 ottobre del 1995 cominciano per Dell’Utri i grossi guai giudiziari. Viene arrestato a Torino per aver inquinato le prove nell’inchiesta sui fondi neri di Publitalia e l’anno successivo, a seguito della sua elezione a deputato di Forza Italia, viene condannato in primo grado a 3 anni di carcere. L’accusa è false fatture e frode fiscale. In appello la pena sale a 3 anni e 2 mesi e in Cassazione, per evitare la carcerazione, patteggerà a 2 anni e 6 mesi definitivi. Da quel momento, Dell’Utri è un pregiudicato.
    Ma i guai non si fermano.
    Nel 1997 inizia a Palermo il processo che lo vede imputato di concorso esterno in associazione mafiosa. Insieme a lui, ma per associazione mafiosa, viene processato Gaetano Cinà.
    Nel corso del procedimento il senatore viene sorpreso da uomini della Dia mentre incontra il falso pentito Pino Chiofalo. Dalle indagini svolte dalla procura emerge l’esistenza di un complotto per usare falsi pentiti allo scopo di screditare quelli veri chiamati a testimoniare nel processo palermitano. Sia quelli che accusano Dell’Utri sia quelli che accusano i boss di Cosa Nostra.
    Dopo aver ascoltato le dichiarazioni di Chiofalo, che patteggia la pena e afferma che Dell’Utri gli assicurò che “lo avrebbe fatto ricco”, il gip dispone la cattura del senatore alla quale l’imputato sfuggirà perché la camera, a maggioranza Ulivo, negherà l’autorizzazione.
    Nel 1999 Dell’Utri è candidato al Parlamento europeo nei collegi Sicilia e Sardegna.
    Dalle intercettazioni effettuate nell’ambito dei procedimenti “Amato” e “Ghiaccio 2”, relativi a soggetti vicini a Bernardo Provenzano, emerge nuovamente l’importanza rivestita all’interno di Cosa Nostra dal senatore forzista.
    Di estremo rilievo i colloqui registrati dagli inquirenti tra Carmelo Amato e le persone a lui legate, tutte orbitanti attorno alla famiglia di Malaspina.
    Tra questi, quelli effettuati all’interno dell’autoscuola “Primavera”, gestita proprio dall’Amato, dove, a detta di Antonino Giuffré, <>.
    Il 5 maggio del 1999, Amato e Michele Lo Forte discutono delle vicine elezioni del 13 giugno ed in particolare, annotano i pm, <>.

    AC: …dobbiamo portare a Dell’Utri…
    LM: ..ppii... esce Dell’Utri
    AC: compare lo dobbiamo aiutare perché se no lo fottono
    […]
    AC: eh… compare se passa lui e sale alle europee non lo tocca più nessuno

    In altra conversazione l’Amato dice testualmente: <>.
    E’ invece Gioacchino Severino, rivolto sempre all’Amato, a riferire: per l’elezione di Dell’Utri <>.
    Ma occorre fare attenzione, sollecita il 5 giugno il Lo Forte, che parla dello <>, dato che vi è il pericolo di essere seguiti e fotografati e, specifica, <
  • >.
    Tra i soggetti gravitanti attorno all’autoscuola vi è infatti anche l’imputato Gaetano Cinà.
    Con un ruolo operativo, all’interno della Cosa Nostra di Provenzano, evidentemente per effetto dei suoi rapporti con Dell’Utri.
    <>, sono le parole di Cinà, rivolte all’Amato che, dal canto suo, risponde: <>.
    Il 13 giugno Dell’Utri viene eletto eurodeputato ed entra a far parte della Commissione Giustizia del Parlamento Europeo.

    Gli impegni
    con Cosa Nostra
    Il 13 maggio del 2001 Dell’Utri viene eletto senatore della Repubblica.
    Dalle intercettazioni ambientali disposte a casa del boss Giuseppe Guttadauro, reggente del mandamento di Brancaccio, si sente ancora parlare di lui.
    Il 9 aprile del 2001, Guttadauro afferma che il politico aveva preso degli impegni con l’associazione mafiosa nel 1999, ma che <>.
    L’unica persona con la quale aveva preso l’impegno del ’99, specifica Guttadauro, <>, <>, della cosca di Villagrazia.
    <>. E quindi il discorso si sposta sui giornalisti. E’ ancora Guttadauro a chiedere al suo interlocutore, Salvatore Aragona, di ottenere una visita di Giuliano Ferrara o Rocco Buttiglione presso l’Ucciardone per verificare le condizioni dei detenuti e farne oggetto di dibattito. Aragona, in risposta, propone di attivare per questo scopo Giancarlo Lehner o Lino Jannuzzi, quest’ultimo a mezzo del Dell’Utri. <>.
    Il 9 aprile del 2001, proseguono i pm, <>.
    A pochi giorni dalle elezioni Aragona e Guttadauro discutono sulla necessità di <> Dell’Utri <>, probabilmente, aggiungono i giudici, per non inguaiarlo ed appoggiarlo a Palermo. In primo luogo, ragiona Guttadauro, <> bisogna <> giudiziari e poi, se viene a Palermo, <>.

    Conclusioni
    Avrà rispettato il senatore di Forza Italia quegli impegni presi con l’organizzazione mafiosa?
    Di sicuro c’è che a seguito delle dimissioni di Domenico Contestabile, Marcello Dell’Utri, su richiesta di Forza Italia, ha recentemente ottenuto la nomina di componente della delegazione italiana presso l’assemblea del Consiglio d’Europa e l’assemblea dell’Ueo.
    Per tale motivo godrà dell’immunità parlamentare, e in una forma particolarmente estesa.
    E una volta parlamentare, come dice il boss Guttadauro nel corso di un’intercettazione risalente al 21 aprile 2001, <<è stato uno schiaffo alla Procura>>, perché <>.
  • LE BUGIE ED I SILENZI DI BERLUSCONI “PIDUISTA”

    DICHIARAZIONE DI ANTONINO CAPONNETTO SUI FATTI RELATIVI ALLA ISCRIZIONE ALLA P 2 DEL GRANDE NANO.

    Circa un anno fa il quotidiano La Repubblica riportava alcune dichiarazioni in cui l’On. Berlusconi tentava di far credere che egli non avesse mai fatto parte della P2 e che il ricevimento della tessera della P2 sarebbe stato un fatto episodico e non seguito da una sua iscrizione alla loggia massonica.
    La verità è ben diversa ed è - forse – il caso di ricordarla ai cittadini in questa vigilia di elezioni, tanto più che questa vicenda sembra essere stata dimenticata sia da Berlusconi che dai suoi avversari (pur avendo io superato gli 80 anni, la mia memoria è ancora vigile).
    In realtà il Cavaliere si iscrisse alla P2 è pagò regolarmente le quote associative. Proprio per aver affermato il contrario innanzi al Tribunale di Verona egli venne denunciato per falsa testimonianza.
    Con sentenza n. 97 del 1°/10/90, passata in giudicato, la Sezione istruttoria della Corte d’Appello di Venezia, pur applicando una sopravvenuta (e… provvidenziale) amnistia, entrava - come suo dovere - nel merito, per vagliare la possibilità di un proscioglimento pieno. Così testualmente scriveva:
    <A) dalle risultanze della commissione Anselmi;
    B) dalle stesse dichiarazioni rese dal prevenuto avanti al G.I. di Milano, e mai contestate, secondo cui la iscrizione alla P2 avvenne nei primi mesi del 1978.
    Invero dagli atti della commissione parlamentare ed in particolare dagli elenchi degli affiliati, sequestrati in Castiglion Fibocchi, figura il nominativo del Berlusconi (n. di rif. 625) e l’annotazione del versamento di lire 100.000 come eseguito in contanti in data 5 maggio 1978, versamento la cui esistenza risulterebbe comprovato anche da un dattiloscritto proveniente dalla macchina da scrivere di Gelli>>.
    Queste precisazioni io ebbi a fare in una mia “lettera al Direttore” che il giornale pubblicò (allora era più facile ottenere spazio su certi temi… ). In essa io dedicavo qualche parola alle affermazioni di Berlusconi sulla “non pericolosità” della P2, richiamandomi ai gravi fatti riferiti dalla Commissione Anselmi, a quelli narrati da Gherardo Colombo nel libro Il vizio della memoria ed a tutte le stragi italiane in cui era stata coinvolta la P2.
    Ricordare tutto ciò – oggi – può sembrare un’offesa per l’intelligenza e la coscienza degli italiani. Ma mi sta a cuore – in particolare – la generazione che sta crescendo e che deve essere aiutata nella conoscenza dei fatti e nella memoria storica, se veramente vogliono rinnovare il nostro paese.
    Firenze, 15. 3. 2001
    Dott. Antonino Caponnetto

    IL MEGALOMANE E LO STRAATEGA. PROGETTI D'AUTUNNO.

    DA ANTINAFIA 2000 - 19 agosto 2009

    Se la lotta alla mafia non fosse una questione “terribilmente seria”, come diceva Giovanni Falcone, e se non avessero perso la vita “i nostri figli” come ricorda senza sosta Giovanna Maggiani Chelli nei suoi accorati comunicati in cerca di giustizia, si potrebbe perfino cedere alla tentazione di farsi una bella risata.



    Silvio Berlusconi, il nostro presidente del Consiglio, ahinoi, tra le tanti ragioni per cui probabilmente passerà comunque alla storia ha scelto proprio l’unica che poteva risparmiarsi: sconfiggere la mafia. E ammesso che non sia del tutto uscito di senno, c’è da scommettere che in questo suo freudiano outing si nasconda più di un motivo.
    Il primo è molto semplice: riportare la consapevolezza del fenomeno mafioso all’anno zero, facendo credere agli italiani ipnotizzati dai suoi effetti speciali che la mafia sia una questione di guardie e ladri, di criminalità spicciola che si risolve solo con l’esercito e le carceri. Ci aveva già provato Mussolini e forse qualche fascista nostalgico è rimasto convinto che il duce abbia sconfitto la mafia, salvo poi richiamare in fretta e furia Cesare Mori, il prefetto di ferro, quando era andato a ficcare il naso nel cuore del potere di Cosa Nostra: la politica e gli affari.
    Ecco qui il problema: Cosa Nostra, la mafia, ma anche le altre nostrane produzioni, ‘ndrangheta e Camorra, vivono da secoli per i loro legami a doppio filo con la politica, con l’imprenditoria e con alcuni pezzi delle istituzioni deviate e/o corrotte.
    “Il nodo è politico”, ripeteva sempre il povero Borsellino già sbiadito a un mese esatto dall’anniversario della strage di via d’Amelio. “Ibridi connubi tra criminalità organizzata, centri di potere occulto e settori devianti dello stato hanno la responsabilità di aver tentato persino di condizionare il libero svolgimento della democrazia e di aver ispirato crimini efferati”, diceva Giovanni Falcone, il grande amico di tutti, ricordato per ciò che fa comodo tranne per le sue accuse specifiche e taglienti.
    Il secondo possibile motivo, dicevamo, ci sarebbe probabilmente sfuggito se non fosse arrivato, sempre via stampa, un corposo indizio. Marcello Dell’Utri, braccio destro e sinistro di Berlusconi, già condannato a nove anni e mezzo di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa, ha dichiarato di voler proporre, non appena ricominceranno le attività parlamentari, una commissione d’inchiesta sulle stragi del ’92. Insomma – ha spiegato al Riformista - si parla di trattativa tra stato e mafia ed è il caso di vederci chiaro.
    E siamo d’accordo! E’ ora di sapere chi assieme a Cosa Nostra ha assassinato Falcone, Borsellino, la dottoressa Morvillo e gli agenti delle loro scorte.
    Considerato però che tra i primi ad essere indagati come possibili mandanti esterni della strategia stragista sono stati proprio loro: Berlusconi e Dell’Utri, alfa e beta, le dichiarazioni di oggi 19 agosto 2009 suonano quanto meno inquietanti. E se il premier è noto per le sparate, il suo “mediatore con Cosa Nostra” è da prendere più sul serio. Un po’ come Riina e Provenzano, uno megalomane e l’altro stratega.
    Di colpo si svegliano e vogliono combattere la mafia, proprio adesso che stanno emergendo dichiarazioni e documenti che quella trattativa potrebbero dimostrarla, proprio adesso che si potrebbero scoprire le vere finalità di quel progetto di morte che ha cambiato i connotati politici e non solo alla nostra Repubblica.
    Chissà quante escort, canzonette, telenovelas, ballerine, eredità, divorzi, sexy e spy story bisognerà inventarsi per coprire quello che è il vero enorme scandalo italiano: il vincolo mafia, politica e imprenditoria che tiene sotto ricatto l’emancipazione democratica dell’Italia.

    A seguito alcuni stralci delle motivazioni della sentenza che condanna Marcello Dell’Utri a nove anni per concorso esterno in associazione mafiosa e l’archiviazione di Berlusconi e Dell’ Utri come mandanti esterni delle stragi.

    Nella sentenza palermitana di primo grado (11dicembre 2004), che condanna Marcello Dell’Utri alla pena di anni nove di reclusione con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, si legge letteralmente:

    “Gli elementi probatori emersi dall’indagine dibattimentale espletata hanno consentito di fare luce:
    sulla posizione assunta da Marcello Dell’Utri nei confronti di esponenti di “cosa nostra”, sui contatti diretti e personali con alcuni di essi (Bontate, Teresi, oltre a Mangano e Cinà), sul ruolo ricoperto dallo stesso nell’attività di costante mediazione, con il coordinamento di Cinà Gaetano, tra quel sodalizio criminoso, il più pericoloso e sanguinario nel panorama delle organizzazioni criminali operanti al mondo, e gli ambienti imprenditoriali e finanziari milanesi con particolare riguardo al gruppo FININVEST;
    sulla funzione di “garanzia” svolta nei confronti di Silvio Berlusconi, il quale temeva che i suoi familiari fossero oggetto di sequestri di persona, adoperandosi per l’assunzione di Vittorio Mangano presso la villa di Arcore dello stesso Berlusconi, quale “responsabile” (o “fattore” o “soprastante” che dir si voglia) e non come mero “stalliere”, pur conoscendo lo spessore delinquenziale dello stesso Mangano sin dai tempi di Palermo (ed, anzi, proprio per tale sua “qualità”), ottenendo l’avallo compiaciuto di Stefano Bontate e Teresi Girolamo, all’epoca due degli “uomini d’onore” più importanti di “cosa nostra” a Palermo;
    sugli ulteriori rapporti dell’imputato con “cosa nostra”, favoriti, in alcuni casi, dalla fattiva opera di intermediazione di Cinà Gaetano, protrattisi per circa un trentennio nel corso del quale Marcello Dell’Utri ha continuato l’amichevole relazione sia con il Cinà che con il Mangano, nel frattempo assurto alla guida dell’importante mandamento palermitano di Porta Nuova, palesando allo stesso una disponibilità non meramente fittizia, incontrandolo ripetutamente nel corso del tempo, consentendo, anche grazie a Cinà, che “cosa nostra” percepisse lauti guadagni a titolo estorsivo dall’azienda milanese facente capo a Silvio Berlusconi, intervenendo nei momenti di crisi tra l’organizzazione mafiosa ed il gruppo FININVEST (come nella vicenda relativa agli attentati ai magazzini della Standa di Catania e dintorni), chiedendo al Mangano ed ottenendo favori dallo stesso (come nella “vicenda Garraffa”) e promettendo appoggio in campo politico e giudiziario.
    Queste condotte sono rimaste pienamente ed inconfutabilmente provate da fatti, episodi, testimonianze, intercettazioni telefoniche ed ambientali di conversazioni tra lo stesso Dell’Utri e Silvio Berlusconi, Vittorio Mangano, Gaetano Cinà ed anche da dichiarazioni di collaboratori di giustizia; la pluralità dell’attività posta in essere, per la rilevanza causale espressa, ha costituito un concreto, volontario, consapevole, specifico e prezioso contributo al mantenimento, consolidamento e rafforzamento di “cosa nostra” alla quale è stata, tra l’altro, offerta l’opportunità, sempre con la mediazione di Marcello Dell’Utri, di entrare in contatto con importanti ambienti dell’economia e della finanza, così agevolandola nel perseguimento dei suoi fini illeciti, sia meramente economici che, lato sensu, politici”.

    In merito all’opera di intermediazione svolta da Marcello Dell’Utri tra gli interessi di Cosa Nostra e quelli imprenditoriali di Silvio Berlusconi, i giudici sottolineano ancora che l’imputato “ha non solo oggettivamente consentito a “cosa nostra” di percepire un vantaggio, ma questo risultato si è potuto raggiungere grazie e solo grazie a lui”

    “Conclusivamente, ad avviso del Collegio, Marcello DellUtri ha consapevolmente assunto, in relazione alle vicende specificamente analizzate in questo capitolo (quello del pizzo per le antenne ndr.), lo stesso ruolo del coimputato Cinà; è stato, come quest’ultimo, un anello, il più importante, di una catena che ha consolidato e rafforzato “cosa nostra”, consentendole di “agganciare” una delle più importanti realtà imprenditoriali italiane e di percepire dal rapporto estorsivo, posto in essere grazie alla intermediazione del Dell’Utri e del Cinà, un lauto guadagno economico.
    L’ulteriore e decisivo tramite, al fianco dell’amico palermitano portatore diretto di interessi mafiosi.
    Così operando, Marcello Dell’Utri (come Cinà), ha favorito “cosa nostra” reiterando le condotte, tenute in precedenza, anch’esse significative ai fini della responsabilità penale in ordine ai reati contestati in rubrica, la cui sussistenza viene rafforzata da quanto analizzato in questo capitolo.
    Una condotta ripetitiva, quella di tramite tra gli interessi della mafia e quelli di Berlusconi, ancora una volta posta in essere da Dell’Utri anche in tempi successivi…”

    Nel capitolo finale, dedicato alle considerazioni conclusive, i giudici condannano il coimputato Gaetano Cinà alla pena di anni sette di reclusione con l’accusa di associazione mafiosa e ad una pena più severa (nove anni) Marcello Dell’Utri. “Dovendosi negativamente apprezzare – scrivono - la circostanza che l’imputato ha voluto mantenere vivo per circa trent’anni il suo rapporto con l’organizzazione mafiosa (sopravvissuto anche alle stragi del 1992 e 1993, quando i tradizionali referenti, non più affidabili, venivano raggiunti dalla “vendetta” di “cosa nostra”) e ciò nonostante il mutare della coscienza sociale di fronte al fenomeno mafioso nel suo complesso e pur avendo, a motivo delle sue condizioni personali, sociali, culturali ed economiche, tutte le possibilità concrete per distaccarsene e per rifiutare ogni qualsivoglia richiesta da parte dei soggetti intranei o vicini a “cosa nostra”.
    Si ricordi, sotto questo profilo, anche l’indubitabile vantaggio di essersi allontanato dalla Sicilia fin dagli anni giovanili e di avere impiantato altrove tutta la sua attività professionale.
    Ancora, deve essere negativamente apprezzata la già sottolineata importanza del suo consapevole contributo a “cosa nostra”, reiteratamente prestato con diverse modalità, a seconda delle esigenze del momento ed in relazione ai singoli episodi esaminati nei precedenti capitoli.
    Inoltre, il Collegio ritiene assai grave la condotta tenuta dall’imputato nel corso del processo, avuto riguardo al tentativo di inquinamento delle prove a suo carico, così come risulta dimostrato dalla disamina della vicenda “Cirfeta-Chiofalo”, come pure la circostanza che egli, contando sulla sua amicizia con Vittorio Mangano, gli abbia chiesto favori in relazione alla sua attività imprenditoriale, come emerge dall’analisi della vicenda “Garraffa”.
    Infine, si connota negativamente la sua disponibilità verso l’organizzazione mafiosa attinente al campo della politica, in un periodo storico in cui “cosa nostra” aveva dimostrato la sua efferatezza criminale attraverso la commissione di stragi gravissime, espressioni di un disegno eversivo contro lo Stato, e, inoltre, quando la sua figura di uomo pubblico e le responsabilità connesse agli incarichi istituzionali assunti, avrebbero dovuto imporgli ancora maggiore accortezza e rigore morale, inducendolo ad evitare ogni contaminazione con quell’ambiente mafioso le cui dinamiche egli conosceva assai bene per tutta la storia pregressa legata all’esercizio delle sue attività manageriali di alto livello.”

    Motivazione sentenza di archiviazione mandanti esterni (3/05/2002)

    Sebbene non sia stato possibile provare il nesso tra le stragi e i due onorevoli indagati, il gip scrive “gli atti del fascicolo hanno ampiamente dimostrato la sussistenza di varie possibilità di contatto tra uomini appartenenti a Cosa Nostra ed esponenti e gruppi societari controllati in vario modo dagli indagati. Ciò di per sé legittima l’ipotesi che, in considerazione del prestigio di Berlusconi e Dell’Utri, essi possano essere stati individuati dagli uomini dell’organizzazione quali eventuali nuovi interlocutori”. Rileva inoltre che “tali accertati rapporti di società facenti capo al gruppo Fininvest con personaggi in varia posizione collegati all’organizzazione Cosa Nostra, costituiscono dati oggettivi che - in uno agli altri elementi relativi ai contatti e alle frequentazioni di Dell’Utri con esponenti della stessa cosca - rendono quanto meno non del tutto implausibili né peregrine le ricostruzioni offerte dai vari collaboratori di giustizia, esaminate nel presente procedimento in base alle dichiarazioni dei quali si è ricavato che gli odierni indagati erano considerati facilmente contattabili dal gruppo criminale; vi è insomma da ritenere che tali rapporti di affari con soggetti legati all’organizzazione abbiamo quantomeno legittimato agli occhi degli “uomini d’onore” l’idea che Berlusconi e Dell’Utri potessero divenire interlocutori privilegiati di Cosa Nostra”.

    mercoledì 19 agosto 2009

    IMPRESSIONI DI AGOSTO, PENSANDO A SETTEMBRE 2009.

    Postato su Giornalettismo il 17 agosto 2009.

    I dati statistici usciti a cavallo di ferragosto sull’andamento del Pil in alcuni paesi invitano a qualche riflessione. Il Prodotto interno lordo di Francia, Germania e probabilmente anche del Giappone ha finalmente smesso di crollare, dopo un anno di caduta rovinosa ed ininterrotta, registrando nel secondo trimestre 2009 una lievissima ricrescita rispetto al trimestre precedente. E’ una notizia positiva, ma non è la fine del tunnel. Come avverte l’amministrazione USA, “la crisi sarà finita quando l’occupazione tornerà a crescere”. E tenendo conto, come ricorda la Federal Reserve, che “i livelli occupazionali pre crisi saranno ripristinati, se tutto va bene, in dieci anni”.

    Molti economisti (tra cui gente del calibro di Roubini, Stiglitz, Fitoussi) ricordano che gli squilibri nei fondamentali di molte economie, la forte presenza di titoli tossici tutt’ora presenti nei bilanci delle banche, la grande esposizione finanziaria dei governi di mezzo mondo disegnano scenari tutti ancora da decifrare per il futuro. Se si cade dal 50esimo piano di un grattacielo riuscire a rallentare la caduta di qualche metro non è, di per sé, una notizia positiva.

    L’Italia, in particolare, non ha nulla da festeggiare. Tanto per cambiare, è l’unica ad aver registrato un’ulteriore (seppur lieve) caduta. E’ un problema “cronico”: la nostra “capacità competitiva” è da 15 anni almeno inferiore a quella degli altri paesi “ricchi”. Quando il mondo corre, noi camminiamo. Quando il mondo rallenta, noi arretriamo. Quando il mondo cade, noi crolliamo. Rendersene conto non è pessimismo. E’ una presa di coscienza, l’unica che può permetterci di risalire.

    Purtroppo da noi c’è chi continua a cantare la canzone di una ripresa imminente, che dipenderebbe solo da un po’ di ottimismo. Se è una dichiarazione di facciata, niente di male. Ma se chi la canta ne fosse davvero convinto, questo mostrerebbe solo l’incapacità di comprendere che cosa sta accadendo e cosa accadrà. Ammesso e non concesso che i fondamentali dell’economia tornino a posto prima del previsto, e che l’atterraggio dei sistemi economici mondiali dopo la sbornia di spesa pubblica immessa dai governi di mezzo mondo (Italia esclusa, per motivi noti e in gran parte comprensibili) sia rapido ed indolore, NIENTE SARA’ PIU’ COME PRIMA: non è finito il mondo, ma è finito un mondo.

    Perché il credito facile che ha alimentato la bolla dei consumi americani non ci sarà più per un pezzo. Perché il commercio mondiale tornerà ai livelli pre-crisi (se va bene) tra 3-4 anni. Perché l’occupazione (come già detto) sarà per anni inferiore a quella di metà 2008. Perché la crisi ha fatto sparire (probabilmente per sempre) un modello basato sul consumismo sfrenato, ed il capitalismo (che sa sempre reinventarsi, ed è questa la sua grande forza come sistema economico-sociale) dovrà comunque essere ridisegnato tenendo conto che la pressione ambientale di altri due miliardi di persone (i paesi che si stanno arricchendo) renderà insostenibile tra non molti anni un modello basato sull’uso intensivo di risorse energetiche e sull’ambiente.

    Insomma, la politica dovrebbe rimettersi in moto, non limitandosi a sperare nell’ottimismo (che pure serve, intendiamoci!). Soprattutto lasciando da parte le boutade di mezz’estate. Non è difficile, basta fare un piccolo sforzo in più. Oppure, passare la mano.

    (Ah, per inciso: la contemporanea riduzione di prezzi avvenuta in molti paesi europei a luglio, se verrà troverà conferme nel prossimo futuro, non è un bel segnale, anche se non ce ne rendiamo conto. Perchè un processo generalizzato e continuato di riduzione dei prezzi si chiama deflazione. Chiedere a qualche amico giapponese che cosa può significare)

    IL DISASTRO DEI CONTI PUBBLICI ITALIANI.

    Postato su Giornalettismo il 12 agosto 2009

    La Banca d’Italia ha pubblicato stamattina le consuete statistiche sul fabbisogno e sul debito delle Pubbliche amministrazioni, con il quale rende noti i flussi di incassi e pagamenti dello stato. Come spesso capita, i principali organi d’informazione si soffermano su aspetti “marginali”, senza andare al nocciolo della faccenda. Tutti i media si stanno concentrando infatti sulle entrate, mettendo in evidenza il loro calo. Nel primo semestre 2009 esse sono state pari a 179,8 miliardi, contro i 185,9 miliardi dello stesso periodo dello scorso anno. La riduzione effettivamente c’è stata, ma non è così eclatante anche perché, come ha spiegato la stessa Banca d’Italia, a cui ha fatto seguito il ministero dell’Economia, “la dinamica del mese di giugno ha risentito anche dello slittamento delle scadenze fissate per il versamento delle imposte per i contribuenti soggetti agli studi di settore e che pertanto il dato non è confrontabile con quello del corrispondente mese del 2008”.

    La cosa interessante dei dati di Bankitalia però è un’altra, e la troviamo sul fronte delle spese: le spese correnti passano da 185,2 miliardi di euro del primo semestre 2008 a 201,3 miliardi di euro del primo semestre 2009, un aumento dell’8,7%, pari a oltre 16 miliardi. Crescono anche le spese per investimento (1,4 miliardi di euro). Il disavanzo calcolato sui primi 6 mesi è di -23,1 miliardi rispetto ai -7,5 del primo semestre 2008. Una vero e proprio buco.

    Ma il dramma è anche nel confronto tra le entrate tributarie e le spese correnti, quello che viene chiamato saldo di parte corrente, che è il vero segnalatore di una sofferenza finanziaria profonda dei nostri conti. Esso rappresenta la capacità dello Stato di far fronte alle sue spese “correnti” (acquisto di beni e servizi, salari e stipendi, pensioni, ecc…) con le entrate fiscali. A seguito dell’incredibile aumento della spesa corrente, questo saldo – che nel primo semestre 2008 (Governo Prodi in carica) era POSITIVO per 0,8 miliardi di euro – diventa NEGATIVO attestandosi a -21,4 miliardi di euro. Anche considerando lo slittamento indicato da Bankitalia e Tesoro, che vale circa 3 miliardi di euro, è un dato pesantissimo.

    Come faccia il ministero dell’Economia a chiudere il suo comunicato con un giudizio positivo (sulla “tenuta” delle entrate) senza prendere in considerazione la voragine delle spese correnti non stupisce neppure più. Come faccia la pubblica opinione, i giornali e l’opposizione a non accorgersi di nulla e a non chiedere conto di cosa sta avvenendo alla spesa corrente (evidentemente fuori controllo) è un mistero che comincia a farsi inspiegabile.

    GIU' LA MASCHERA TREMONTI! ANALISI DEL DPF

    Postato da Carlo Cipriani su Giornalettismo il 20 luglio 2009.

    Non si finisce mai di imparare dal ministro dell’economia. Nel Documento di programmazione economica e finanziaria riesce anche a smentire se stesso, scrivendo un’analisi senza speranza e dettando una ricetta che fa paura: non fare nulla davanti a problemi giganteschi del paese.

    Per mesi il governo ha detto di esser stato l’unico ad aver previsto la crisi (si vede: per il 2009 il vecchio Dpef prevedeva un +0,9%, quello attuale un -5,2%!), ad aver già “sistemato” i conti pubblici. Il governo ha anche detto in questi mesi che l’Italia ne avrebbe risentito meno di altri e che sarebbe stata la prima a riprendersi quando la congiuntura fosse tornata al bello. Per questo si sono fatti solo provvedimenti “tampone”. Chi affermava il contrario era uno iettatore, una cassandra o peggio. Adesso a certificare il disastro dell’economia italiana e dei suoi conti pubblici è proprio il Dpef.
    I CONTI PUBBLICI – La strategia di non fare nulla, che in Conferenza stampa è stata definita virtuosa, è opposta alla considerazioni fatte nel Dpef. Questa brillante strategia di nascondere la testa sotto la sabbia di fronte ai problemi cronici dell’economia italiana, limitandosi a “concentrare e riallocare le poste all’interno del bilancio” senza fare riforme strutturali, anzi negandone la necessità nelle dichiarazioni è contraddittoria allo scrivere che senza di esse l’Italia non riuscirà a rimanere sugli obiettivi di convergenza. Controlliamo gli effetti della geniale trovata sui conti pubblici: ci sono alcune conferme ma anche qualche sorpresa, leggendo la Tav. III.6 (quella sui Conti pubblici). La conferma: per la prima volta nella storia, non esiste una manovra finanziaria che incide sui saldi di bilancio. La risposta a quell’analisi impietosa, alle prospettive di effetti permanenti della crisi economica sull’economia italiana e sui conti pubblici è NON FARE NIENTE. Ma in quella tabella ci sono anche delle “stranezze”.

    I NUMERI CURIOSI – La prima è la riduzione del Pil nominale 2009 un po’ bassa rispetto alla Ruef di aprile 2009 e al PdS di febbraio. Tra il Pds di febbraio (previsione riduzione Pil reale a -2%) e Ruef (previsione riduzione Pil reale a -4,2%) il Pil nominale stimato crolla di 34 miliardi di euro. Nel Dpef (previsione riduzione Pil reale a -5,2%) ci si aspetterebbe un altro forte calo del Pil nominale, diciamo poco meno della metà. Invece il Pil nomianale si riduce di appena 8 miliardi di euro. Un “giochetto” che sembra fatto apposta per sovrastimare le entrate tributarie, e quindi rendere più “dolce” il già pesantissimo peggioramento del saldo di bilancio. La seconda è la sostanziale stasi della voce “salari e stipendi della PA”. Significa o che si prevede una consistente riduzione di personale (capito, precari?) oppure di non aumentare gli stipendi per i prossimi 3 anni, neppure del livello dell’inflazione (Bonanni è d’accordo? Ma lo legge il Dpef?). La terza è l’aumento della voce “acquisto di beni e servizi”, rispetto a quanto indicato nel bilancio programmatico del Dpef di un anno fa. Potrebbero aver agito gli stabilizzatori automatici (ma il Dpef afferma che essi sono stati lasciati agire soprattutto sul versante delle entrate), ma certo la differenza è notevole. O forse, in realtà è molto difficile modificare la traiettoria inerziale dei meccanismi di spesa. Per metterli sotto controllo servono decisi interventi, quindi c’è il rischio o di ulteriori squilibri del bilancio dello Stato o di un taglio consistente di alcune voci di spesa corrente nel prossimo futuro.

    LE PENSIONI – In compenso, si vede chiaramente il peso sempre crescente delle pensioni tra le voci di bilancio. Sembrano inarrestabili, e rendono quindi più sconcertante l’assenza della previsione di una riforma a breve. Sembra di vedere Tremonti e Berlusconi ridacchiare e darsi di gomito mentre scrivono, a pag. 29 questa beffarda frase: “Va ricercato un confronto per individuare possibili percorsi di contenimento della spesa pensioni, ritenuto necessario e non rinviabile, quale intervento di prospettiva, da molte Organismi internazionali”. Ma chi scrive queste cose si vergogna, almeno un pochino? Mentre la spesa per pensioni passa da 223,4 miliardi nel 2008 a 266,1 nel 2103 nel 2009 (+43 miliardi di euro) resta quasi immobile quella per le altre prestazioni sociali. E vengono ridotti dal 2010 gli investimenti (gli interventi strutturali). Ma che razza di futuro immagina per l’Italia che ha i problemi scritti nel Dpef il governo che quel documento lo ha scritto e presentato al Parlamento?

    LA FINE DEL DPEF – Tremonti lo ha ripetuto più volte: questo sarà l’ultimo Dpef. E’ uno strumento che non gli è mai piaciuto. Perchè costringe chi lo scrive a mettere nero su bianco come sta l’Italia e cosa si pensa di fare per risolvere i suoi problemi. E questo è ben diverso dal fare dichiarazioni roboanti alla stampa. Bisogna mettere in fila i numeri, e questo consente a chiunque ne abbia voglia di valutare la credibilità di un uomo di governo, la sua capacità di capire i problemi, la sua capacità di affrontarli. Da questo punto di vista, questo Dpef è perfetto. Certifica che il nostro uomo ha abbastanza chiari i mali dell’Italia, sa anche cosa si potrebbe fare per risolverli ma sceglie di non fare nulla. Per quale motivo, andrebbe chiesto a lui. Certo, così com’è il Dpef è uno strumento che non serve a molto. Ma, come si era detto qui qualche anno fa, “la soluzione non è di limitarlo a una o poche tabelle, né di abolirlo o rinviarlo a settembre. Va piuttosto ripensato alla luce delle mutate esigenze nel governo dei flussi di finanza pubblica“. E, ci permettiamo di aggiungere, far governare l’economia italiana a una persona seria. Anche di destra, ma seria.

    LO SCENARIO MACROECONOMICO – L’analisi della situazione economica è impietosa. A pag.5 si avverte che “nei paesi più sviluppati la ripresa potrebbe essere disomogenea in relazione al diverso grado di esposizione alle cause strutturali della crisi. Resta da verificare se la ripresa anticipata dei paesi asiatici emergenti possa agire da volano per le aree più avanzate. Rimangono inoltre dubbi sulla solidità complessiva della ripresa ciclica mondiale, soprattutto in considerazione del probabile graduale venir meno dello stimolo fiscale e monetario”. Quindi, dice Tremonti, la ripresa sarà lenta, non sarà generalizzata, riguarderà più i paesi asiatici che gli altri. E non è scontato che sarà duratura, anzi ci sono rischi notevoli di una ripresa lenta e a singhiozzo. Il Dpef prevede infatti un aumento del commercio mondiale solo a partire dal 2011 e attorno al 5% annuo, quindi molto più lento del passato (prima della crisi era attorno al 9% annuo). E i paesi industrializzati, cioè noi e i nostri principali “clienti” cresceranno molto meno di prima. E l’Italia come è messa?

    LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA – Continuiamo a leggere il documento di Tremonti: “In Italia l’attività produttiva, caratterizzata congiuntamente da forte propensione all’esportazione e da peso rilevante dell’industria manifatturiera sul valore aggiunto, ha particolarmente risentito del crollo degli scambi internazionali e della forte riduzione degli investimenti”. Ma come, non eravamo quelli messi meglio? Non proprio: nel 2008, anno in cui il commercio mondiale segnava comunque un +2,5%, le nostre esportazioni erano già a -3,7%. E in futuro, se il commercio mondiale crescerà a livelli molto meno intensi di prima (parola di Tremonti), come fa il Dpef a prevedere una ripresa della crescita del Pil italiano al 2% annuo dal 2011, se prima della crisi (quando il mondo cresceva del 9% annuo), l’Italia ristagnava allo 0,5% medio? Tremonti forse pensa ad una robusta ripresa della domanda interna. Ma non sembra, parola di Dpef: “i consumi risentiranno della caduta dell’occupazione” (ma allora i dati Istat sull’occupazione sono affidabili, ministro?). E per gli investimenti, Tremonti (Tav. III.5, pag. 27) stima l’importo del provvedimento di detassazione degli utili attorno allo 0,1% di Pil. Cioè niente, a meno di non pensare ad un effetto moltiplicatore keynesiano mai visto al mondo. E tenendo conto, è sempre il Dpef a parlare che “la riduzione degli investimenti è connessa ai bassi livelli di utilizzo della capacità produttiva, all’inasprimento delle condizioni del credito bancario e al calo della profittabilità delle imprese”. La previsione di aumento degli investimenti per il 2011 è molto ottimistica.

    LE BUGIE DI TREMONTI – Non ci sono prospettive incoraggianti nell’analisi di Tremonti, e la previsione di crescita alta a partire dal 2011 è pure contraddetta dall’analisi del Dpef. Coincide con le molte analisi delle cassandre di questi ultimi mesi. Come si concili con le dichiarazioni superottimistiche del Ministro è un mistero. Ma c’è di peggio. Leggiamo cosa dice Tremonti a pag.36: “I risultati mettono in evidenza come la crisi stia dispiegando effetti di natura permanente, prevalentemente imputabili alla riduzione del tasso di crescita del PIL potenziale, sia sulle entrate, attraverso il deterioramento delle basi imponibili, sia sulla spesa primaria, peggiorando il saldo primario al di là di quanto ci si potrebbe attendere se si considerasse unicamente l’effetto degli stabilizzatori automatici”. Se questo è il suo pensiero, quando Tremonti dice alla stampa che noi siamo messi meglio degli altri, mente sapendo di mentire. Come fa a dire, visto ciò che scrive, che l’Italia non ha bisogno di riforme strutturali, che basta aspettare che passi la crisi e poi il paese ripartirà? Nel “suo” Dpef scrive: “Il ritorno a un sentiero di convergenza verso l’obiettivo di medio termine della politica di bilancio richiederà l’adozione di ulteriori interventi di risanamento fiscale”. Come il ministro possa giustificare la distanza tra questo Dpef e le sue dichiarazioni di stampa è un suo problema. Il fatto che non si decida a invertire la rotta, in un modo o nell’altro, è un problema di tutti gli italiani.

    I CONTI PUBBLICI – La strategia di non fare nulla, che in Conferenza stampa è stata definita virtuosa, è opposta alla considerazioni fatte nel Dpef. Questa brillante strategia di nascondere la testa sotto la sabbia di fronte ai problemi cronici dell’economia italiana, limitandosi a “concentrare e riallocare le poste all’interno del bilancio” senza fare riforme strutturali, anzi negandone la necessità nelle dichiarazioni è contraddittoria allo scrivere che senza di esse l’Italia non riuscirà a rimanere sugli obiettivi di convergenza. Controlliamo gli effetti della geniale trovata sui conti pubblici: ci sono alcune conferme ma anche qualche sorpresa, leggendo la Tav. III.6 (quella sui Conti pubblici). La conferma: per la prima volta nella storia, non esiste una manovra finanziaria che incide sui saldi di bilancio. La risposta a quell’analisi impietosa, alle prospettive di effetti permanenti della crisi economica sull’economia italiana e sui conti pubblici è NON FARE NIENTE. Ma in quella tabella ci sono anche delle “stranezze”.

    I NUMERI CURIOSI – La prima è la riduzione del Pil nominale 2009 un po’ bassa rispetto alla Ruef di aprile 2009 e al PdS di febbraio. Tra il Pds di febbraio (previsione riduzione Pil reale a -2%) e Ruef (previsione riduzione Pil reale a -4,2%) il Pil nominale stimato crolla di 34 miliardi di euro. Nel Dpef (previsione riduzione Pil reale a -5,2%) ci si aspetterebbe un altro forte calo del Pil nominale, diciamo poco meno della metà. Invece il Pil nomianale si riduce di appena 8 miliardi di euro. Un “giochetto” che sembra fatto apposta per sovrastimare le entrate tributarie, e quindi rendere più “dolce” il già pesantissimo peggioramento del saldo di bilancio. La seconda è la sostanziale stasi della voce “salari e stipendi della PA”. Significa o che si prevede una consistente riduzione di personale (capito, precari?) oppure di non aumentare gli stipendi per i prossimi 3 anni, neppure del livello dell’inflazione (Bonanni è d’accordo? Ma lo legge il Dpef?). La terza è l’aumento della voce “acquisto di beni e servizi”, rispetto a quanto indicato nel bilancio programmatico del Dpef di un anno fa. Potrebbero aver agito gli stabilizzatori automatici (ma il Dpef afferma che essi sono stati lasciati agire soprattutto sul versante delle entrate), ma certo la differenza è notevole. O forse, in realtà è molto difficile modificare la traiettoria inerziale dei meccanismi di spesa. Per metterli sotto controllo servono decisi interventi, quindi c’è il rischio o di ulteriori squilibri del bilancio dello Stato o di un taglio consistente di alcune voci di spesa corrente nel prossimo futuro.

    LE PENSIONI – In compenso, si vede chiaramente il peso sempre crescente delle pensioni tra le voci di bilancio. Sembrano inarrestabili, e rendono quindi più sconcertante l’assenza della previsione di una riforma a breve. Sembra di vedere Tremonti e Berlusconi ridacchiare e darsi di gomito mentre scrivono, a pag. 29 questa beffarda frase: “Va ricercato un confronto per individuare possibili percorsi di contenimento della spesa pensioni, ritenuto necessario e non rinviabile, quale intervento di prospettiva, da molte Organismi internazionali”. Ma chi scrive queste cose si vergogna, almeno un pochino? Mentre la spesa per pensioni passa da 223,4 miliardi nel 2008 a 266,1 nel 2103 nel 2009 (+43 miliardi di euro) resta quasi immobile quella per le altre prestazioni sociali. E vengono ridotti dal 2010 gli investimenti (gli interventi strutturali). Ma che razza di futuro immagina per l’Italia che ha i problemi scritti nel Dpef il governo che quel documento lo ha scritto e presentato al Parlamento?

    LA FINE DEL DPEF – Tremonti lo ha ripetuto più volte: questo sarà l’ultimo Dpef. E’ uno strumento che non gli è mai piaciuto. Perchè costringe chi lo scrive a mettere nero su bianco come sta l’Italia e cosa si pensa di fare per risolvere i suoi problemi. E questo è ben diverso dal fare dichiarazioni roboanti alla stampa. Bisogna mettere in fila i numeri, e questo consente a chiunque ne abbia voglia di valutare la credibilità di un uomo di governo, la sua capacità di capire i problemi, la sua capacità di affrontarli. Da questo punto di vista, questo Dpef è perfetto. Certifica che il nostro uomo ha abbastanza chiari i mali dell’Italia, sa anche cosa si potrebbe fare per risolverli ma sceglie di non fare nulla. Per quale motivo, andrebbe chiesto a lui. Certo, così com’è il Dpef è uno strumento che non serve a molto. Ma, come si era detto qui qualche anno fa, “la soluzione non è di limitarlo a una o poche tabelle, né di abolirlo o rinviarlo a settembre. Va piuttosto ripensato alla luce delle mutate esigenze nel governo dei flussi di finanza pubblica“. E, ci permettiamo di aggiungere, far governare l’economia italiana a una persona seria. Anche di destra, ma seria.