mercoledì 31 marzo 2010

La Cina supera il Giappone: è la seconda potenza industriale del mondo.


Da Greenreport del 31 marzo 2010.


Il Quotidiano del Popolo on-line ha annunciato oggi che «L'industria manifatturiera della Cina occupa il 15,6% dl valore totale dell'industria mondiale. Così, la Cina ha sostituito il Giappone per diventare il secondo più grande Paese manifatturiero del mondo, immediatamente dopo gli Stati Uniti». Il giornale del Partito comunista cinese riferisce quanto detto da Wang Zhongyu, presidente della Federazione delle imprese cinesi, nel corso di una conferenza nazionale sulla gestione imprenditoriale tenutasi a Pechino.

Wang ha sottolineato che «La Cina si classifica prima nella classifica mondiale per la produzione in numerosi settori di attività e che per questo è anche chiamata "la fabbrica del mondo". Ma l'industria manifatturiera cinese non sempre altrettanto forte, essendo la maggioranza delle sue imprese a basso valore aggiunto, con dei servizio meno avanzati di molti delle loro omologhe straniere. Nei Paesi sviluppati, i settori dei sevizi fanno parte dei settori più avanzati, diventando anche le principali attività di numerose società multinazionali».

Il sorpasso cinese è confermato dai dati resi noti dall' United Nations Industrial Development Organization (Unido) la Cina è al 15,6% dl valore totale della produzione industriale del pianeta, il Giappone al 15,4%. Gli Usa restano primi con il 19%. Il Quotidiano del Popolo informa che nel 2009, la produzione cinese di acciaio è stata di 568 milioni di tonnellate (il 47% della produzione mondiale); la produzione e vendita di cemento è arrivata a 1,65 miliardi di tonnellate (60%); la capacità di gestione dei porti cinesi ha raggiunto i 7 miliardi di tonnellate, cioè il 50% del totale mondiale.

Le cifre sui servizi confermano le preoccupazioni del presidente della "Confindustria" cinese: le società statunitensi che operano nei servizi rappresentano il 58% del totale delle imprese di produzione Usa, mentre in Cina solo il 2,2% delle imprese è impegnata nel settore dei servizi. D'altronde la "fabbrica del mondo" non può davvero pensare ancora all'economia post-industriale all'occidentale... Eppure secondo Wang «Le imprese cinesi dovranno trasformarsi in imprese di servizi, seguendo la tendenza mondiale dello sviluppo dell'industria».

Il sito del ministero del commercio cinese ieri aveva annunciato che «Secondo delle informazione della Wto (l'Organizzazione mondiale del commercio), la Cina ha superato la Germania per diventare il più grande esportatore del mondo, occupando il 10% delle esportazioni mondiali. Le statistiche a hanno anche dimostrato che per le importazioni la Cina figura al secondo posto ed occupa l'8% delle importazioni mondiali, dietro agli Stati Uniti (13%)».

Secondo la Wto la crescita del commercio mondiale nel 2010 raggiungerà il 9,5%, segnando la fine della crisi e l'avvio della ripresa economica a livello mondiale.

I dubbi sul fatto che la Cina sarebbe diventato il primo esportatore del pianeta venivano soprattutto dalla possibile rivalutazione dello yuan, ma invece gli indicatori commerciali cinesi sono tutti al rialzo, a cominciare dal record mondiale di auto vendute con il sorpasso sugli Usa e si prevede che il Pil cinese supererà quello del Giappone per salire al secondo posto.

Un portavoce del ministero del commercio spiega però sul Quotidiano del Popolo che secondo lui «Le esportazioni cinesi sarebbero superiori a quelle della Germania, ma queste cifre riguardano solo il 2009. In base e in misura alla ripresa economica del 2010 e del 2011, saranno fluttuanti e precarie. I grandi Paesi commerciali come gli Stati Uniti e la Germania hanno finito la loro trasformazione da Paesi industriali a Paesi di servizi, attualmente offrono esportazioni e servizi e preferiscono disporre degli investimenti localmente. La classifica non è il solo indice ma la struttura delle esportazioni ha bisogno di un maggior riaggiustamento e di fare dei progressi».

Oggi il Beijing Times ha pubblicato i dati di Wind Info con la classifica delle 10 imprese cinesi quotate in borsa con i maggiori guadagni: in testa c'é la Industrial and Commercial Bank of China (Icbc), il più grande istituto di prestiti del mondo per valore di mercato, con 129,4 miliardi di yuan (18,95 miliardi di dollari), la Icbc ha superato la PetroChina (15,14 miliardi di dollari) che scivola al terzo posto sorpassata anche dalla China Construction Bank, (15,65 milliardi di dollari), Quarta è la China Bank. Seguono Industrial Bank, l'operatore telefonico China Unicom e China Vanke il più grande promotore immobiliare cinese, e la Huaneng Power International il maggiore produttore di elettricità del Paese. Tutte insieme le 10 prime imprese cinesi mettono in saccoccia 561,14 miliardi di yan, il 75% del totale delle 832 aziende prese in esame dalla classifica, mancano però all'appello colossi come China Life Insurance e China Merchants Bank che non hanno ancora presentato i loro bilancia annuali. La classifica sembra contraddire quanto dice il governo sulla debolezza del settore dei sevizi cinesi: la top ten è costituita tutta da imprese del settore energetico e delle finanze.

giovedì 11 marzo 2010

ITALIA. SECONDO L'OCSE PROSPETTIVE MAGRE.


Pietro Salvato su Giornalettismo del 10 marzo 2010

2009 da dimenticare e 2010 carico d’incertezze. Ecco come si presenta il quadro economico italiano. Per l’Ocse siamo solo 20mi nella classifica europea del Pil pro capite, mentre la mobilità sociale s’è fermata. Nel lungo periodo, inoltre, il nostro Paese potrebbe restare a bassa crescita.

“Quello che serve è una strategia per la crescita. Prima vediamo la strategia, poi vediamo come allocare le risorse. Il debito italiano è molto alto e certo nei prossimi anni l’Italia avrà molta concorrenza da altri governi per finanziarsi sui mercati, dunque occorre molta prudenza nel gestire il bilancio pubblico“. Parola del capo economista dell‘Ocse, Pier Carlo Padoan che ha tracciato un quadro non certamente entusiasmante dello stato della nostra economia e delle sue più immediate prospettive. Anzi, anche nel lungo periodo – quando Keynes sosteneva con humor tipicamente britannico “saremo tutti morti” – Padoan non vede particolare miglioramenti: “L’Italia potrebbe restare a bassa crescita strutturale, le riforme che alzano il potenziale di crescita richiedono tempo per dare risultati“.

MA L’OCSE VA OLTRE - L’Italia è tra i paesi più colpiti dalla crisi economica mondiale cominciata, oramai, quasi due anni fa. E questo il giudizio dell’Ocse che suo nel rapporto denominato “Obiettivo crescita”che stima per il nostro Paese nel lungo termine, una perdita del Pil di ben -4,1% rispetto al suo potenziale. Questo vero e proprio crollo, sarebbe il frutto del calo persistente dell’occupazione (-1,9%) e del maggior costo dei capitali, per 2,1 punti percentuale. Nella classifica stilata, i paesi più colpiti saranno l’Irlanda (-11,8), la Spagna (-10,6), la Polonia (-4,5) e quindi proprio l’Italia. Il nostro Paese si piazza al ventesimo posto, sui trenta paesi dell’Ocse, sia per quanto riguarda la Produttività sia per il Pil pro-capite. A causa della crisi, lo scarto in termini di produttività tra l‘Italia e i principali Paesi dell‘Ocse si è ulteriormente dilatato, arrivando al 25%. Nel rapporto dell’organizzazione economica parigina, inoltre, è stato evidenziato come la differenza di Pil per ora di lavoro, rispetto al resto degli altri paesi che ci precedono on classifica, ha toccato la soglia del 20%, mentre quella del Pil pro capite prmai sfiora il 30%. “I risultati dell’Italia sulla produttività sono rimasti mediocri“, scrive l’Ocse nel suo rapporto, anche se “il comportamento del mercato del lavoro, sia per il tasso di attività che per quello di disoccupazione, è regolarmente migliorato fino a quando l’economia è stata toccata dalla crisi“, ossia prima del 2008. “La performance della produttività resta modesta - conferma il documento – le azioni di liberalizzazione e incremento della concorrenza ne hanno migliorato le prospettive, anche se resta la necessità di altre riforme“. Inutile ricordare, ancora una volta, che le ultime “azioni di liberalizzazione ed incremento della concorrenza” nel nostro paese sono quelle riconducibili alle leggi “Bersani”, in verità comunque modeste, ormai datate più di due anni fa.

LA MOBILITÀ SOCIALE CHE NON C’È - Sempre per l’Ocse, l’Italia si piazza in coda a quasi tutti gli altri paesi europei per quanto riguarda la cosiddetta “mobilità sociale” . Nel nostro paese, almeno il 40% del agevolazione economiche dei padri con redditi elevati viene trasmesso ai figli. Solo in Gran Bretagna la proporzione è più elevata. Inoltre se il padre è laureato, il figlio ha il 30% in più di probabilità di arrivare all’università del figlio di genitori con un minore grado di istruzione e la disparità si tradurrà in futuro, di conseguenza, in un’ineguaglianza di reddito. L’Italia, inoltre, risulta essere uno dei Paesi in cui c’è un maggiore premio in termini di reddito se si proviene da una famiglia di buon livello culturale e una delle maggiori penalizzazioni se la famiglia di provenienza ha un minore livello d’istruzione. In sostanza, emerge il ritratto di un paese ingessato, anchilosato tra rendite, spesso parassite, e palesi conflitti d’interesse.

LA RICETTA PARIGINA - Proprio per questo, secondo l’Ocse, i settori in cui gli interventi dovrebbero essere prioritari sono quelli riguardanti la riduzione della proprietà pubblica e delle barriere normative alla concorrenza, il miglioramento del sistema di istruzione, soprattutto universitario, il decentramento della contrattazione salariale e l’aumento dei finanziamenti per la ricerca. “L’Italia – sostiene l’Ocse nel suo rapporto – deve ridurre le tasse sul lavoro e sulle pensioni, oltre ad aumentare le deduzioni nell’Irap. Allo stesso tempo, deve finanziare le riduzioni fiscali con la lotta all’evasione, ponendo termine ai “condoni fiscali“. In particolare, dallo studio emerge che per un single a basso reddito e senza figli la pressione fiscale sì è avvicinata al 45%, mentre è sotto il 35% nell’area Ocse. Per una persona sposata, con medio reddito e due figli, la tassazione supera il 35%, contro una media Ocse vicina al 27%. Tutte cose che gli osservatori più attenti delle nostre vicende socio-economiche, hanno più volte segnalato nel silenzio assordante, ad onor del vero, di molti media e soprattutto nel vuoto di proposta e d’azione dello stesso governo.