giovedì 20 agosto 2009

MARCELLO DELL'UTRI. UNA VITA AL SERVIZIO DELLA MAFIA.

DA ANTIMAFIA 2000.

Nella lunga requisitoria al processo di Palermo i pm chiedono 11 anni per il senatore forzista
di Giorgio Bongiovanni e Monica Centofante

Lo scorso 8 giugno, dopo ben 16 udienze, i pm Antonio Ingroia e Domenico Gozzo hanno terminato la loro lunga requisitoria. A coronamento di un lavoro processuale <>, hanno detto, durato quasi 6 anni e 211 udienze nel corso delle quali sono state ascoltate 270 persone, fra testimoni, imputati di reati connessi e collegati.
E che ha portato alla richiesta, rivolta al presidente della seconda sezione del Tribunale di Palermo Leonardo Guarnotta – giudici a latere Giuseppe Sgadari e Gabriella Di Marco – di condannare Marcello Dell’Utri a 11 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa e Gaetano Cinà, suo coimputato, prima uomo d’onore della famiglia di Malaspina e successivamente “posato” a 9 anni per partecipazione ad associazione mafiosa.
Alla base delle richieste una mole di prove tanto imponente che <>: intercettazioni antiche e recenti, analisi di traffici telefonici, indagini di tipo tradizionale, acquisizioni documentali, consulenze finanziarie, risultanze filmate e fotografiche, dichiarazioni di protagonisti come Ezio Cartotto o Filippo Alberto Rapisarda e in taluni casi ammissioni dello stesso Dell’Utri.
Tutti fatti che hanno abbracciato un arco temporale di 30 anni, a partire dal 1970. Fatti per i quali, sostiene il pm Ingroia, si potrebbe persino chiedere <> e che i collaboratori di giustizia hanno avuto “soltanto” il compito di spiegare, fornendo la necessaria chiave di lettura interna a Cosa Nostra. Niente teoremi di pentiti, come certa stampa ha più volte sentenziato quindi, niente attacchi provenienti da fantomatiche “toghe rosse”, ma prove, che risalgono <>.
Quelle prove che tenteremo di riassumere, nelle pagine che seguono, elencando solo quei fatti che i pm ritengono ormai ampiamente dimostrati.
E che potrebbero portare ad una effettiva condanna del senatore Marcello Dell’Utri, nonostante la storia ci abbia finora dimostrato come sui processi politici sia possibile dire tutto e il contrario di tutto. E’ per questo che ci associamo al giudice Antonio Ingroia che nella sua richiesta di condanna ai giudici ha ricordato come <>, e come sia necessario <>, fare in modo <>.
<<”I have a dream” è una celebre frase di Martin Luther King, il profeta dell’uguaglianza. Ebbene, anche il Pubblico Ministero ha un sogno: quello che anche la legge penale venga applicata secondo il principio di eguaglianza, che tutti i cittadini siano eguali davanti alla legge penale>>.

L’inizio della carriera
Partono dal 1974 le indagini dei pm Ingroia e Gozzo tese a dimostrare i rapporti fra l’odierno senatore Marcello Dell’Utri e l’organizzazione mafiosa Cosa Nostra.
Dall’anno in cui nella villa di Arcore, appartenente all’imprenditore Silvio Berlusconi, si registrano due nuove assunzioni. Quella di Dell’Utri, amico e segretario particolare del proprietario, e quella di Vittorio Mangano, uomo d’onore della famiglia di Porta Nuova, al tempo capeggiata da Pippo Calò.
Personaggio già noto negli ambienti giudiziari per via di una serie di denunce, arresti, processi e condanne, Mangano viene ingaggiato, in quel periodo, proprio da Dell’Utri per rivestire ufficialmente l’incarico di fattore e stalliere. In realtà, racconterà il pentito Francesco Di Carlo, ex boss della famiglia di Altofonte, la sua reale funzione sarà quella di svolgere, unitamente al Dell’Utri e a Gaetano Cinà (uomo d’onore posato della famiglia di Malaspina), la funzione di <>. Minaccia incombente sulla testa dell’imprenditore, che in quegli anni riceve numerose intimidazioni e che per evitare il problema accetta di stipulare quello che la procura definisce un vero e proprio <>. A suggellarlo un incontro diretto e personale, organizzato da Dell’Utri, fra Berlusconi e i capi dell’organizzazione mafiosa di allora: Stefano Bontate e Mimmo Teresi, della famiglia di Santa Maria del Gesù, e Francesco Di Carlo, della famiglia di Altofonte. Testimone oculare, quest’ultimo, di quell’incontro, nel quale si definì l’inserimento di un mafioso di primo piano negli ambienti imprenditoriali milanesi. E a partire dal quale Silvio Berlusconi, affermano i pm, è nelle mani di Cosa Nostra.
Una denuncia alla quale i due politici di Forza Italia hanno sempre risposto con un <>. <>, sono le loro parole, <>.
A testimoniare la reale durata della permanenza del boss nella villa milanese c’è però un rapporto della questura di Milano. Il fattore, si legge, lascia la villa <>.
All’incirca due anni dopo il suo arrivo.
E sono due anni, spiegano i giudici, nei quali succede di tutto e di più.
Ma perché Berlusconi e Del’Utri mentono sulla data dell’allontanamento dello stalliere da Arcore ed era vero che potevano disconoscere la sua reale identità criminale?
Il 7 dicembre del 1974 l’Anonima Sequestri rapisce Luigi D’Angerio, amico di Berlusconi, all’uscita dalla villa di Arcore dove aveva preso parte ad una cena. I sospetti degli inquirenti ricadono su Mangano, ma Berlusconi non ritiene necessario allontanare lo stalliere;
il 27 dicembre dello stesso anno i carabinieri arrestano Mangano con l’accusa di truffa. Una volta scarcerato fa il suo ritorno ad Arcore;
il 18 maggio del 1975 esplode una bomba in via Rovani, contro la sede milanese della Fininvest. Berlusconi e Dell’Utri pensano subito a Mangano e lo rivelano nel corso di una telefonata del 1986, che sarà intercettata nell’ambito delle indagini per il fallimento della Bresciano Costruzioni;
il 1° dicembre del 1975 i carabinieri di Milano arrestano nuovamente Mangano per porto abusivo di coltello e scoprono che deve scontare anche una condanna per ricettazione. Anche questa volta, uscito dal carcere, il mafioso ritorna ad Arcore.
Nel frattempo, all’interno della villa, si registrano continui e misteriosi furti di quadri e, secondo le dichiarazioni di diversi e accreditati collaboratori di giustizia, tra cui Salvatore Cancemi, molti sono i mafiosi che si rifugiano tra quelle mura. Vittorio Mangano, è il suo racconto, <>, <>, <>.
A confermare le sue dichiarazioni Giuseppe Contorno e i fratelli Antonino e Gaetano Grado. Quello stesso Grado che Antonino Calderone, collaboratore catanese, vide <> Dell’Utri, al ristorante “Le colline pistoiesi”, in occasione di un incontro organizzato per festeggiare il compleanno del Calderone stesso. Quello stesso Grado, continua il pentito, che era tra gli organizzatori di un sequestro mai avvenuto del piccolo Piersilvio Berlusconi.
E il Cavaliere “qualcosa” doveva sapere, riflettono i pm, dal momento che il bambino, con il resto della famiglia, venne trasferito per un periodo in Spagna per stare al sicuro.
Ma se tali fatti, ancora oggi, non sembrano rivestire particolare gravità per Dell’Utri e Berlusconi non fu così per la stampa di allora. <>. Una cosa, spiega, che avrebbe potuto offuscare l’immagine dell’imprenditore, e così <>.
Il suo allontanamento da Arcore implicherà anche l’allontanamento di Marcello Dell’Utri.
Scaduto il contratto di assicurazione con Mangano anche l’agente assicurativo viene mandato via. E nonostante il senatore forzista tenti di distanziare l’allontanamento del boss dal proprio, chiarisce Domenico Gozzo, è in quello stesso periodo, alla fine del 1976, che Dell’Utri chiede una promozione all’amico Silvio, ma viene cacciato.
<> gli dice l’imprenditore, già oppresso come testimonieranno le indagini, da una situazione che si fa sempre più pesante e che i periodici versamenti fatti dalla Fininvest a Cosa Nostra – tramite Dell’Utri e Cinà – non sembrano calmare.
Dal canto suo Dell’Utri confermerà che la motivazione del suo licenziamento fu quella e alla signora Bresciano, moglie del titolare della Bresciano Costruzioni ammetterà: <>.
Sette anni più tardi, però, Dell’Utri rientrerà nel gruppo Fininvest. E ci rientrerà dalla porta principale, come dirigente di una delle società più importanti del gruppo.
Che cosa succede in quei sette anni? Perché Berlusconi decide di richiamare Dell’Utri con così tanti onori?
Per riuscire a rispondere a questa domanda, prosegue Gozzo, <>.

Il business delle antenne
In quegli anni, tra il 1977 e il 1983, l’imprenditore Silvio Berlusconi getta le basi di quello che diventerà uno dei più grandi imperi finanziari del nostro Paese. A seguito dell’approvazione di una legge che permette ai privati l’acquisto di reti televisive su scala regionale – dando il via alla televisione commerciale italiana – l’imprenditore si accaparra diverse emittenti in tutta Italia. E tramite la cosiddetta cassettizzazione trasmette contemporaneamente uno stesso programma su tutto il territorio nazionale. In Sicilia le antenne che entrano a far parte del gruppo Berlusconi sono tre: Rete Sicilia srl, Trinacria TV e Sicilia Televisiva, che trasmetteranno, nell’ordine i programmi di Canale5, Italia1 e Rete4. E che in seguito all’approvazione della legge Mammì, nel 1991, verranno fuse in queste tre ultime società.
Ad interessarsi per l’acquisizione di tali frequenze, racconta Francesco Di Carlo, è anche la mafia, contattata dall’imprenditore tramite Dell’Utri il quale interessa Gaetano “Tanino” Cinà.
<>, poi <>, <>.
Pm: Lei ha parlato di un’unica soluzione?
<>. Perché <>.
La costituzione della Rete Sicilia srl risale al 21 dicembre del 1979. Alla presidenza del consiglio di amministrazione c’è Antonino Inzaranto, imprenditore di Termini Imerese, cognato della nipote di Tommaso Buscetta che, nel 1980 era ancora importante uomo d’onore di Cosa Nostra.
<>. Unico ruolo: ricercare i siti per l’installazione delle antenne e firmare il bilancio.
Discorso simile per le altre due emittenti.
Trinacria TV è <>; è <>; conta tra i componenti della sua compagine sociale diversi soggetti in contatto con altri elementi della criminalità organizzata e tra questi Enrico Arnulfo, già sindaco di una società appartenente e facente capo al faccendiere Flavio Carboni e di altra società legata a Salvatore Buscemi, Franceco Bonura e Salvatore Sbeglia.
Sicilia Televisiva, infine, è avviata da Filippo e Vincenzo Rappa, <>.

Tutte le holding
del Presidente
Nello stesso periodo, e precisamente tra il 1975 e il 1983, 113 miliardi di lire di provenienza sconosciuta affluiscono nelle 22 holding Fininvest, che diventeranno poi 37.
I misteriosi introiti finanziari, ricostruisce il pm Gozzo rifacendosi alla deposizione del consulente tecnico dell’accusa Francesco Giuffrida (funzionario della Banca d’Italia), sono da ordinare in tre gruppi essenziali. Dei quali <>.
La Finanziaria di investimento Fininvest, che alla data della sua costituzione, nel marzo del 1975, disponeva di un capitale di 2 miliardi di lire interamente versato, ha già effettuato alla data dell’incorporazione alcune operazioni di aumento di capitale e di sottoscrizione di prestiti obbligazionari fino ad un importo che avrebbe dovuto portare il capitale sociale, una volta sottoscritto, a 30 miliardi di lire il 2 dicembre del ’77.
Anche Fininvest Roma, aggiunge il pm, viene articolata in 25 holding, le quali effettuano aumento di capitale nei limiti di due miliardi di lire in modo tale da non dovere richiedere alcuna autorizzazione al Ministero del Tesoro.
<>, incalza Gozzo nel corso di una delle udienze, in risposta alle considerazioni del consulente tecnico della difesa, dottor Paolo Jovenitti, che “non riterrà opportuno” analizzare questi dati.
E in particolare, riprende il pm, se si considera che parte delle somme viene versata addirittura in contanti. Tanto che all’appello della consulenza tecnica effettuata dal dottor Giuffrida, consulente dell’accusa, mancherebbe l’origine di 16 miliardi e mezzo di lire versati nel 1977 alla Fininvest, appunto, in contanti e in modo frazionato in diversi giorni successivi.
Oltre a questa, tante sono le manovre finanziare non ricostruibili per l’assenza di documenti contabili nelle varie filiali bancarie anche perché molti sono i casi, ricostruisce l’accusa, in cui le operazioni delle holding venivano inserite dagli istituti bancari come “servizi per parrucchieria”, cosa che permetteva loro, come spiegato in udienza da Giuffrida, di <>.
Per non parlare dei vari prestanome e delle cosiddette società <> quali le già citate Ponte e Palina, che nei loro pochi mesi di vita sono state utilizzate esclusivamente per compiere giro conti illogici dal punto di vista bancario, poiché il denaro transitava, nello stesso giorno e per pari importo, in più società dello stesso gruppo per poi ritornare al punto di partenza. Giroconti, sottolinea Gozzo, dell’ammontare di miliardi.
E mentre Jovenitti parla di modello di gestione aziendale <> il pm tuona: <>, e ricorda ai giudici come il professore, nel corso della sua deposizione dibattimentale, aveva tra le altre cose dimostrato di non conoscere i contenuti della consulenza tecnica effettuata in precedenza da Giuffrida e di non essere super partes. Fu lui, infatti, il consulente del Cavaliere al processo milanese sui terreni di Macherio. La sua giustificazione: <>. Strano, incalza, Gozzo, poiché <> e <>. Poi conclude: <>.
Alla fine, però, Jovenitti è costretto ad ammettere. Certe operazioni, dice, erano <> e Berlusconi <>. <>.
Ma perché?
Perché a quasi trent’anni di distanza da quei flussi, ora che gli eventuali reati finanziari e fiscali sono ormai prescritti non c’è trasparenza sui capitali iniziali della Fininvest e nemmeno sui soci di Berlusconi. Che cosa si vuole coprire?
Alla domanda potrebbero rispondere il pentito Francesco Di Carlo e il finanziere Filippo Alberto Rapisarda, i quali avevano riferito sui finanziamenti della mafia, e precisamente di Bontate, alla base dell’ascesa imprenditoriale di Berlusconi.
Oppure i risultati delle indagini condotte a Palermo contro gli stessi Dell’Utri e Berlusconi, indagati per riciclaggio in concorso con i boss Stefano Bontate e Mimmo Teresi. In quell’occasione vennero sequestrati libri soci e libri giornale delle società Fininvest e si scoprì che l’imprenditore aveva omesso di dichiarare, tra le altre cose, che quote rilevanti di alcune di queste erano intestate alla società Par.Ma.Fid. spa che in quel periodo gestiva i beni di Antonio Virgilio. Il quale sembrava riciclare capitali per conto dei clan di Giuseppe e Alfredo Bono, Salvatore Enea, Gaetano Fidanzati, Gaetano Carollo, Carmelo Gaeta e altri boss che gestivano a Milano il traffico internazionale di stupefacenti e i sequestri di persona. In quel periodo Virgilio ed Enea intrattenevano rapporti con Dell’Utri e solo il Virgilio con lo stalliere di Arcore Vittorio Mangano. Il Virgilio, inoltre, era intestatario di conti correnti presso la Banca Rasini, definita dalla Procura di Milano crocevia degli interessi di Cosa Nostra negli anni Sessanta e Settanta e il cui direttore generale, Antonio Vecchione, subentrato a Luigi Berlusconi, venne arrestato nell’ambito di un’operazione contro boss e colletti bianchi.
La prova dei passaggi diretti di quei soldi da soggetti mafiosi al gruppo Fininvest non esiste, osserva infine Gozzo, però è vero <>.
Tra queste, da non sottovalutare quella di Tullio Cannella, il quale riferì che Giacomo Vitale, cognato del Bontate, era intenzionato a recuperare i soldi del boss in seguito alla sua uccisione avvenuta nel 1981 nel corso della guerra di mafia che portò i corleonesi alla leadership di Cosa Nostra. Quegli stessi soldi che tramite la P2 sarebbero finiti in gruppi finanziari imprenditoriali del centro nord.
<>. <>.

Massoneria
e speculazione edilizia
Certo è invece che in quegli stessi anni, più precisamente nel medesimo periodo in cui Dell’Utri va via da Arcore, anche Berlusconi si iscrive alla massoneria. Lo si evince ancora dagli atti, in particolare quelli della cosiddetta Commissione P2 presieduta dall’on. Tina Anselmi, che riporta le dichiarazioni rese dallo stesso Berlusconi all’autorità giudiziaria milanese il 26 ottobre del 1981. L’anno in cui scoppia il caso P2. <>.
Un approccio di convenienza che ha un suo sbocco, se pensiamo che il gruppo Fininvest, grazie a dirigenti piduisti di varie banche fra cui il Monte dei Paschi di Siena (oggetto anche della consulenza tecnica del dottor Giuffrida) e la BNL otterrà fidi spropositati.
Legato a queste banche il piduista Licio Gelli, in rapporti con Flavio Carboni a sua volta in contatto con Cosa Nostra.
Curioso il fatto che in quegli anni la massoneria gioca un ruolo centrale non solo per Berlusconi, ma anche per la mafia di Bontate.
Il quale, fin dagli anni Settanta, sottolineano i pm <>, tramite l’inserimento di alcuni soggetti - due per famiglia ci dice Calderone – nelle logge deviate. Tra questi Benedetto Santapaola (lo rivela il pentito catanese Maurizio Avola), il fratello del Calderone, Totò Greco, Bontate e Giacomo Vitale. Quet’ultimo, spiega invece Gioacchino Pennino, <>, e aveva avuto rapporti con Licio Gelli, <>. <>.
L’intenzione di Bontate, sono le parole di Francesco Di Carlo, era quella di <>.
D’accordo il Vitale che a Gaspare Mutolo dichiara: <>.
Ed <>. Quella grande speculazione edilizia denominata “Olbia 2” che vede il Cavaliere e Cosa Nostra in “rapporti d’affari” tramite un unico intermediario: Flavio Carboni, <>. Il quale, spiega l’ispettore dello Sco Tiano, investiva in Sardegna i proventi del traffico di stupefacenti (vedi Pizza Connection e San Valentino) in qualità di tramite di Pippo Calò.
Degli interessi del Calò nell’isola hanno testimoniato numerosi collaboratori di giustizia tra cui Gaspare Mutolo, Francesco Di Carlo, Tommaso Buscetta, Francesco Scrima, Emanuele Di Filippo, Salvatore Cancemi, Salvatore Cucuzza (apprese degli interessi in Sardegna dallo stesso Calò), Angelo Siino. Ai quali si aggiunge Antonio Mancini, collaboratore proveniente dalla Banda romana.
L’affare Olbia2, spiega ancora Gozzo, consiste nell’acquisto, da parte di Berlusconi, di terreni venduti proprio dal faccendiere Flavio Carboni, che sarà successivamente coinvolto nella fuga e nella misteriosa morte di Roberto Calvi a Londra.
Tali terreni vengono passati a 12 società, le cosiddette “dodici sorelle”, delle quali 4 faranno capo a Berlusconi, 4 ai prestanome di Pippo Calò, 4 a Carboni.
Il 27 agosto del 1982, interrogato dal pm Dell’Osso, a Milano, il Cavaliere confermerà i suoi rapporti con Carboni dichiarando che l’unica possibilità di insediamento sull’isola <>. L’acquisto dei terreni, continua, è stato <>.
Un’operazione estremamente pericolosa per l’immagine massmediatica del Cavaliere, già al centro di non poche polemiche per i suoi passati rapporti con Mangano, per l’iscrizione alla P2 e, ora, per il suo ampio coinvolgimento con il Carboni, soggetto certamente in rapporti con Cosa Nostra e con la Banda della Magliana.
<>.
E’quindi questo il motivo per cui Berlusconi, nel 1983, affidò a Dell’Utri Publitalia, la cassaforte delle televisioni del gruppo Fininvest, quella senza la quale, come hanno riferito molti testi, l’avventura televisiva berlusconiana non sarebbe stata possibile?

Il ritorno a casa Arcore
Di sicuro, lo abbiamo già visto, non sono le doti imprenditoriali dell’imputato a far cambiare idea al Cavaliere.
Durante gli anni della sua lontananza da Arcore e <>, Dell’Utri, trova impiego in un altro gruppo imprenditoriale, la Bresciano Costruzioni, all’interno del quale svolgerà la medesima funzione di rappresentanza degli interessi mafiosi che aveva svolto ad Arcore, ma che egli stesso porterà al fallimento. Bancarotta fraudolenta, si legge negli atti riferiti alla Bresciano, appartenente al costruttore e finanziere siciliano Filippo Alberto Rapisarda. Anch’egli noto agli inquirenti per i suoi rapporti di amicizia con Vito Ciancimino e il clan Cuntrera-Caruana, al quale chiederà asilo quando le indagini sulla bancarotta colpiranno lui e Dell’Utri. Nel 1980 incriminato a piede libero e sottoposto a indagini da parte della Criminalpol di Milano, che intercetta una sua telefonata con Mangano nella quale si fa riferimento all’affare di un <> che fa per lui e per il quale occorrono <> che lui non ha. Fatteli dare dal tuo amico Berlusconi è il commento di Mangano, ma quello, risponde Dell’Utri <<’n sura>> (non suda = non sgancia).
Nell’ultima intervista rilasciata prima della sua morte, il giudice Paolo Borsellino farà riferimento proprio a questa intercettazione, spiegando che era accertato dal maxiprocesso, che quando Mangano parlava di cavalli intendeva riferirsi a partite di droga.
E sempre di droga si parla quando Marcello Dell’Utri, ancora nel 1980, partecipa alle nozze a Londra di Jimmy Fauci, trafficante per conto dei Caruana, che si muove fra l’Italia, la Gran Bretagna e il Canada. Alla festa, alla quale prendono parte tra gli altri Francesco Di Carlo e Mimmo Teresi, Dell’Utri dichiarerà di essere capitato per caso: <>.
E’ questo il Marcello Dell’Utri che nel 1983 fa il suo ritorno trionfale ad Arcore.
All’indomani della sanguinosa guerra di mafia che vede l’affermarsi di una nuova leadership, quella dei corleonesi Riina e Provenzano, che si pongono ai vertici di Cosa Nostra dopo aver ucciso i boss Bontate, Teresi e Inzerillo.
Al suo rientro Dell’Utri è chiamato subito a ristabilire la quiete in un clima di grande tensione.
In sua assenza, infatti, i Pullarà – reggenti della famiglia di Santa Maria del Gesù dopo la morte di Bontate – avevano ereditato quel rapporto privilegiato con l’imprenditore. Mutando, però, quella relazione di impresa amica che aveva caratterizzato il rapporto mafia-gruppo Berlusconi negli anni Settanta. I Pullarà, evidenziano i collaboratori di giustizia – tra cui Calogero Ganci, Francesco Paolo Anzelmo, Antonino Galliano, Salvatore Cucuzza, Francesco Scrima, Vincenzo La Piana, Angelo Siino – erano estremamente onerosi e violenti nelle loro pretese. <> (lasciarlo in mutande ndr.), è la spiegazione di Siino, alla quale si aggiunge quella di Ganci e Anzelmo: il Cavaliere si sentiva <>, che <>.
E mentre in carcere i membri della famiglia Pullarà si scontrano duramente con Mangano (arrestato per mafia e droga nel 1983 da Falcone e Borsellino) proprio per avere l’esclusiva di quel contatto Dell’Utri si rivolge all’amico Cinà nel tentativo di ristabilire quel rapporto di impresa amica.
E’ quest’ultimo a farsi portavoce delle sue richieste presso Pippo di Napoli e quindi Ganci e Riina.
Che sulle prime si infuria perché i Pullarà, racconta Galliano, <> e poi decide di “mettersi nelle mani” personalmente Dell’Utri, per il tramite di Cinà e di Napoli continuando, però, a corrispondere ai Pullarà e alla famiglia di Santa Maria del Gesù una parte della somma versata dall’imprenditore.
Secondo quanto dichiarato da Francesco Paolo Anzelmo, poi confermato da Calogero Ganci, Salvatore Cancemi e altri la cifra <>. (<> aggiunge Galliano) Sul tramite: <
  • >.
    Ma perché Riina decide di subentrare direttamente in quel rapporto?
    Il motivo, è la spiegazione di Gozzo, non è sicuramente legato alla riscossione dei soldi, ma a una complessa strategia politica che prevedeva l’abbandono dell’ormai titubante Scudo Crociato per agganciare il Psi. La volontà dell’associazione, come emergerà da decine di indagini, era addirittura quella di arrivare ai vertici del partito e, quindi, a Bettino Craxi che era allora Presidente del Consiglio.
    Per raggiungere i propri scopi, quindi, e <>, spiegano Anzelmo e Galliano – il primo per averlo appreso da Mimmo Ganci - l’organizzazione mafiosa riprende con la strategia degli attentati e delle minacce che aveva caratterizzato gli anni Settanta con Mangano.
    E come con Mangano riparte da via Rovani.

    Quelle pesanti
    intercettazioni
    E’ sicuramente la prova più importante e significativa presentata dai pm nel corso del processo.
    Una serie di sei telefonate, intercettate nel 1986 in casa Dell’Utri dalla procura di Milano nell’ambito del procedimento per il fallimento della Bresciano Costruzioni.
    Nelle prime tre l’imputato parla con l’amico Silvio, nelle altre con Tanino Cinà.
    Il tema delle conversazioni è l’attentato mafioso del 28 novembre del 1986 alla sede Fininvest di via Rovani 2 sul quale il Cavaliere non ha dubbi. <>, esordisce nella prima delle sei telefonate e al suo interlocutore, l’amico Marcello, spiega: <>. Della medesima opinione del Cavaliere Fedele Confalonieri, presente ad Arcore al momento dello scoppio.
    Questa certezza, però, risulterà infondata il giorno successivo quando Dell’Utri, a seguito di una conversazione intrattenuta con il Cinà, telefona nuovamente a Silvio. <> che possa trattarsi di Mangano.
    Berlusconi non ha bisogno di ulteriori spiegazioni.E dal tenore della conversazione appare evidente che non solo conosce il Tanino di cui gli parla Dell’Utri, ma gli attribuisce, così come il Dell’Utri stesso, una forte competenza in fatti di mafia.
    Si rasserena poi completamente quando l’amico Marcello aggiunge: <>, <>.
    Affermazione, osservano i pm, <> e che conferma le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia in merito al progetto mafioso di avvicinare Cinà a Dell’Utri e Berlusconi.
    Dichiarazioni che riguardano anche le successive minacce.
    <>. Una conferma arriva anche dall’Anzelmo che aggiunge: <>.

    Le regalie
    alla mafia
    E per sgombrare ulteriormente il campo dal dubbio che quello tra Dell’Utri, Berlusconi e Cinà potesse essere un rapporto tra estortore ed estorti i pm fanno ascoltare in aula quella che definiscono <>. Una telefonata nel corso della quale Cinà parla di una cassata spedita a Dell’Utri e di un’altra, del peso di 11 chili e 800 grammi, che intende inviare al Cavaliere e sulla quale, dice, ho fatto scrivere <>.
    E <>.
    Sul punto, alle dichiarazioni <> rese in tutti questi anni dai collaboratori di giustizia e allo sconcertante contenuto delle intercettazioni appena descritte si aggiunge anche una prova documentale.
    Il libro mastro della famiglia di San Lorenzo, fatto ritrovare da Giovambattista Ferrante presso le case Ferreri, che dimostra non solo il pagamento dei soldi da parte della Fininvest a Cosa Nostra, ma anche che quelle somme erano versate a titolo di donazione.
    A tenere il libro mastro, ha spiegato il pentito, era Salvatore Biondo “il lungo” che aveva il compito di gestire le estorsioni e che sarebbe successivamente diventato reggente della famiglia di San Lorenzo. Tale “registro del racket” era costituito da due agende <>.
    Da una parte si legge: “Can.5 n. 8”, dall’altra, al n. 8 “Regalo 990/5mila”. Spiegazione di Ferrante: Canale 5 pagò, nel 1990, 5 milioni a Cosa Nostra. In merito alla dicitura regalo: <>. Altre ditte facevano regali di questo genere? <>. Poi continua: <>. E conclude: <>.
    Altri collaboratori, però, allungheranno questo periodo. Tra questi Salvatore Cancemi, anch’egli testimone oculare della consegna di quelle somme, che dice di avere visto <>, che provenivano <> almeno sino al 1993, mentre Giusto di Natale parlerà della metà degli anni 90.
    Queste agende, sottolinea il pm, presentate in altro processo hanno portato alla condanna definitiva di una cinquantina di uomini d’onore.

    Gli anni
    della transizione
    Nel 1987 si tengono le elezioni politiche. Per la prima volta nella sua storia Cosa Nostra appoggia, nella persona dell’on. Martelli, un solo partito, il Psi, <>.
    A raccontarcelo decine di pentiti che parlano di un ordine <> di votare per i socialisti. <>. Notevoli malumori si registrano infatti all’interno dell’associazione mafiosa e perfino ai vertici, aggiunge Giuffré, poiché <>.
    Contrarietà che si dimostra fondata, visto il risultato non soddisfacente raggiunto dal Psi, in seguito al quale, però, la mafia non molla.
    Al contrario, ritorna alla carica con Berlusconi e gli rivolge nuove minacce.
    E’ il 1988 quando il Cavaliere, in un colloquio intercettato dagli inquirenti, si confida con l’amico immobiliarista Renato della Valle. <>, <>.
    Ma quei “casini” non sono destinati a finire.
    In quegli anni di transizione che attraversa il nostro Paese, riprende Ingroia, <>, e che attraversa il mondo intero <> sempre più forti sono le ripercussioni che si determinano nell’universo mafioso. <>. E ormai fortemente danneggiato dalle conseguenze più negative del maxiprocesso e dalla condanna in primo grado di tantissimi mafiosi incastrati dalle dichiarazioni di quei pentiti che hanno fatto crollare, per la prima volta, il muro dell’omertà e il mito dell’impunità di Cosa Nostra.
    In questo periodo sempre più forte si avverte la necessità, da parte dei vertici dell’associazione criminale, di ricercare nuovi “canali” verso i quali orientare la propria capacità di dirigere i consensi elettorali. Agganci più affidabili di quanto non si fossero rivelati quelli del passato.
    E per raggiungere tale scopo Riina continua ad avvalersi di quel contatto, coltivato fin dagli inizi degli anni Ottanta, con la galassia Fininvest.
    Giovanni Brusca, spiega Angelo Siino, <>. <>, <>.
    L’avvertimento soft di via Rovani e la minaccia che spaventò sul serio il Cavaliere nel 1988 non erano bastati.
    E’ in questo contesto che prende il via una serie di attentati incendiari e intimidatori in danno dei magazzini Standa di Catania. Sulle prime l’obiettivo è estorsivo e non si rivolge solo alla Standa, ma anche al gruppo Sigros – La Rinascente, facente capo alla Fiat.
    Successivamente, prosegue Ingroia, dopo un proficuo scambio di idee fra i capifamiglia palermitani e catanesi l’obiettivo si amplia. <>.
    Tanto che il pentito Filippo Malvagna, nipote del noto boss mafioso Giuseppe Pulvirenti detto ‘u malpassotu’ dichiara: <>. L’obiettivo era <>, <>, aggiunge Claudio Severino Samperi, esecutore materiale degli atti incendiari, ma le reali motivazioni di tali atti le <>, <> nonostante <>.
    Anche Antonino Giuffré, all’epoca capomandamento, riceve un invito da parte del Riina <>. Perché il suo obiettivo, aggiunge, era quello di <>.
    Negli ambienti milanesi il messaggio viene recepito. Mentre il gruppo Sigros ammette agli inquirenti di avere subito delle estorsioni ed indica perfino lo specifico importo delle tangenti pagate, i responsabili nazionali Standa giurano di non sapere nulla e i rappresentanti siciliani del gruppo forniscono una versione estremamente riduttiva e, a detta dei pm, assolutamente incredibile dei fatti.
    Agli atti intimidatori segue intanto una sorta di braccio di ferro tra la mafia e il gruppo Berlusconi.
    Giuseppe Pulvirenti parla dell’idea maturata all’interno di Cosa Nostra, e successivamente abbandonata, di <>, Samperi racconta invece che Salvatore Tuccio (noto esponente della famiglia mafiosa catanese di Santapaola), <>, <> del tipo <>. Poi, conclude, circa un paio di mesi più tardi <>.
    A mettere a posto le cose, è la testimonianza concorde di molti collaboratori di giustizia, e in primo luogo Filippo Malvagna, è intervenuto Dell’Utri.
    <>.
    Nei due mesi di trattativa almeno due sarebbero gli incontri del braccio destro di Silvio Berlusconi con gli esponenti della mafia locale. Il primo con Salvatore Tuccio, a Milano, in esito al quale vengono offerte allo stesso allettanti prospettive di reinvestimento del denaro della “famiglia” di Catania. L’altro, quello decisivo, in provincia di Messina, con Aldo Ercolano (noto esponente della famiglia mafiosa di Santapaola, a Catania) e Nitto Santapaola in persona.
    <>, racconta Maurizio Avola, pentito catanese, Dell’Utri <>.
    Poco prima di quell’incontro, Aldo Ercolano, all’odierno pentito Francesco Pattarino, al tempo rappresentante della famiglia di Catania per Siracusa, afferma: <>.
    <>. <>.
    A questo punto viene siglato l’accordo. <>.
    Ma cosa ha promesso Marcello Dell’Utri?
    E come ha intenzione di agevolare i “progetti politici” di Cosa Nostra?

    I nuovi referenti
    Nel medesimo periodo, il 1991, Vittorio Mangano, in carcere dall’83, torna in libertà. E tenta di riappropriarsi dell’esclusiva dei vecchi rapporti con Dell’Utri e Berlusconi. Ma Salvatore Riina non glielo permette. Tramite Salvatore Cancemi, in rapporti intimi con lui, gli manda a dire di farsi da parte.
    <>. Ma Vittorio, prosegue Cancemi, <>. Gli ricorda quindi gli anni della sua permanenza ad Arcore, <>, poi chiede: <>. Si convince soltanto quando il Cancemi gli ripete: <>.
    L’anno successivo viene emessa la sentenza di Cassazione del maxiprocesso. Le condanne ai boss di Cosa Nostra, richieste dai giudici del pool antimafia di Falcone e Borsellino, non vengono annullate come Riina sperava. Alla sbarra, con sentenza definitiva, centinaia di mafiosi.
    La mafia, ferita, da il via a un violento attacco allo Stato. Mentre a Milano infuriano le indagini su Tangentopoli che chiudono il capitolo Dc in Italia, uccide i nemici giurati Falcone e Borsellino e realizza un programma di destabilizzazione politica, che ha come preliminare obiettivo l’azzeramento dei rapporti con i referenti politici tradizionali, ritenuti ormai irrimediabilmente inaffidabili. Uccide Salvo Lima e Ignazio Salvo e programma l’assassinio di Martelli, Mannino e di un figlio di Andreotti.
    Il 15 gennaio del 1993 Riina viene arrestato a Palermo.
    Cosa Nostra, però, non si ferma. Il 27 maggio del 1993 un’autobomba scoppia in via dei Georgofili, a Firenze. 5 i morti. Il 27 luglio altre due bombe seminano terrore e morte a Milano, in Via Palestro e a Roma, contro le basiliche di San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro. Ancora 5 le vittime.
    Marcello Dell’Utri, “canale” preferenziale di Cosa Nostra verso quel mondo imprenditoriale e politico oggetto di forti attacchi da parte dell’organizzazione criminale non viene annoverato tra quegli “amici” della mafia ritenuti ormai inaffidabili. E non viene toccato.
    Al contrario, sottolinea Ingroia, è un alleato sul quale contare per avere un lungo e luminoso avvenire. E le sue continue relazioni con mafiosi di rango, in quegli anni, sono dimostrate anche da una recente sentenza di condanna che attesta come egli continuasse a compiere atti estorsivi avvalendosi dell’intervento di un soggetto mafioso della portata di Vincenzo Virga. E dei suoi legami con soggetti vicini ai fratelli Graviano, capimafia fra i protagonisti più assoluti della stagione stragista del 1993.
    Dell’importanza di Dell’Utri all’interno di Cosa Nostra, in quel delicato momento storico, parla Salvatore Cancemi, rivelando una confidenza ricevuta da Raffaele Ganci da far risalire a poco prima della stagione stragista del 1992-93. <>.
    E’ il pentito a ricollegare questo discorso con quello dello stesso Riina che ordinandogli di dire a Mangano di farsi parte aveva detto: <>.
    Il pm, allora, gli chiede: <>.
    Cancemi risponde: << E’ una cosa che qualunque cosa io ci chiedo ce l’ho nelle mani e sono a disposizione o loro chiedono e io sono a disposizione. Questo è il significato che c’è una cosa reciproca>>.
    Il pm chiede ancora: questa persona importante è Marcello Dell’Utri?
    Il collaboratore risponde: <>.
    <Ma la realtà sta cambiando assai rapidamente e urgono decisioni altrettanto rapide. In questo contesto, matura all’interno di Cosa Nostra una strategia della tensione finalizzata a ristrutturare i “rapporti con la politica”, attraverso l’azzeramento dei vecchi referenti politici e la creazione delle condizioni più agevoli per l’affermazione di nuovi soggetti politici, che tutelassero più efficacemente gli interessi del sistema mafioso>>.
    L’evento che segna la fine un’epoca di quei vecchi rapporti, interviene ancora Giuffré, è l’omicidio dell’on. Lima. Un atto, spiega, con il quale si intendeva chiudere un rapporto <>. <>.

    Forza Italia
    Nel 1992, quindi, Dell’Utri il <>, come lo definiscono i pm, il <>, <> e che mai si era interessato di politica, inizia a farsi protagonista ed artefice, in prima persona, di iniziative politiche legate al mondo Fininvest. Coinvolge in primo luogo il democristiano Ezio Cartotto, vecchio amico e consulente di Berlusconi, analista politico, per ragionare sulle possibili prospettive per il gruppo Fininvest e, a tal fine, gli commissiona una serie di conferenze sul tema. Cartotto viene contattato da Dell’Utri in gran segreto, ed è lui stesso a raccontarlo ai pm. <>. Ma <>. Per Dell’Utri, continua, vi era la necessità <>. <>. Più specifico Giovanni Mucci, collaboratore di Cartotto: <>.
    E mentre l’imputato, nell’intento di ripararsi dalle dichiarazioni dei pentiti, continuerà a dire che fu Berlusconi, <> a comunicargli l’iniziativa, lo smentiranno una serie di altri testi, <>, come li definiscono i pm, tra cui gli amici Enrico Mentana, Maurizio Costanzo e Gianni Letta, citati dalla difesa.
    Tra le altre cose, Letta ricorda il suo stupore nell’aver appreso che Berlusconi, nonostante il parere contrario alla sua discesa in campo da parte sua e di Fedele Confalonieri preferì l’opinione di Dell’Utri. che sul Cavaliere aveva, evidentemente, una notevole influenza.
    <>. Pm: <>. Letta: <>.
    Si spinge ancora più in là Enrico Mentana che aggiunge: mentre ancora vi era un dibattito interno al gruppo (di opinione contraria all’avventura politica anche Maurizio Costanzo) Dell’Utri era già passato alla fase organizzativa. <>, sono le sue parole, <> <>, in particolare il <>, <>.
    Nel 1993 Dell’Utri tenta però anche un’altra via. In quell’anno i boss ancora legati alla strategia stragista di Riina fondano “Sicilia Libera”. Una iniziativa politica che dovrebbe collegarsi ad una serie di leghe spuntate un po’ ovunque nel meridione, la cui paternità è attribuibile ad ambienti della massoneria deviata e della destra eversiva.
    Sul fronte di Cosa Nostra, spiega infatti Giuffré, l’arresto di Riina determina <> e <>, sicché si creano due schieramenti: da un lato Bagarella, Brusca e i Graviano, che propendono per la prosecuzione della strategia stragista, dall’altro Provenzano, Aglieri, Greco, Raffaele Ganci e lo stesso Giuffré. I quali prediligono invece una soluzione trattativista.
    Sono i primi i principali promotori di “Sicilia Libera”. E in particolare Leoluca Bagarella che, in alternativa alle scelte di Provenzano e per evitare l’errore già commesso da Riina – quello di dare troppa fiducia ai politici – medita di creare un movimento politico nuovo portato avanti direttamente da uomini di Cosa Nostra. Da questo progetto, racconta Giuffré, <>, il gruppo dello schieramento più vicino a Bernardo Provenzano, <>. Già nel passato, siamo attorno agli anni ’82-’83 continua, <>, ma <> <> avevano avuto un’idea simile che <>. Alla fine, anche Bagarella si convince e abbandona l’idea.
    Dell’Utri dal canto suo, dopo quella breve parentesi torna a concentrarsi completamente sul progetto a cui da mesi lavora con Cartotto.
    Nella seconda metà del 1993, la notizia della discesa in campo di Berlusconi comincia a girare all’interno di Cosa Nostra. Proprio nello stesso periodo in cui, ricorda ancora Cartotto, il Cavaliere si incontra con Bettino Craxi, l’uomo che Cosa Nostra voleva agganciare negli anni precedenti, il quale lo spinge <> facendogli prendere la decisione definitiva.
    Iniziano per l’organizzazione mafiosa, prosegue Giuffré, un periodo di <>,<>. Si fa una sorta di sondaggio interno, uno <> che voleva appurare con sicurezza <> degli agganci. Che dovevano servire a <>. I mali, precisa, sono <>. C’erano poi <>, e la <> esercitata <>. Infine <>. <>.
    Fra i capimafia, comincia a diffondersi un senso di rinnovata fiducia. Sembrano essere stati trovati i giusti contatti, tra i quali Marcello Dell’Utri.
    Di lui Giuffré parla insieme a Pietro Aglieri e Carlo Greco. <>. Alla fine il Provenzano <> con Cosa Nostra di dare il proprio assenso ad appoggiare il nuovo soggetto politico per il quale vi erano stati i contatti con Dell’Utri. <>. <>. Perché <>.
    Nel novembre del 1993, con il fallito attentato allo stadio Olimpico di Roma, finisce bruscamente la lunga stagione stragista di Cosa Nostra.
    L’accordo è stato quindi raggiunto? Ma quali sono le garanzie ricevute da Provenzano?
    Il patto, spiega ancora Giuffré, prevede da una parte la <>, che <> si sarebbe sistemato tutto; dall’altra l’impegno a dare appoggio elettorale al partito e a porre fine alla strategia stragista. <>. <>.
    Numerose le intercettazioni telefoniche e numerosissime le dichiarazioni dei collaboranti che confermano la ricostruzione di Giuffré. Che parlano di consensi elettorali da indirizzare verso i candidati del nuovo movimento politico Forza Italia. Tra questi Antonio Calvaruso – che venne motivato da Leoluca Bagarella con l’assicurazione che da tale appoggio sarebbero derivati benefici per Cosa Nostra; Emanuele di Filippo e Pasquale di Filippo – la cui fonte è ancora Bagarella; Tullio Cannella, Antonino Galliano, Giusto di Natale e Francesco La Marca. Questi ultimi due confermano, tra l’altro, l’importante ruolo rivestito da Mangano nella stipula dell’accordo pre-elettorale, che anche Giuffré aveva affermato.
    E dei suoi rapporti con Dell’Utri.
    Rapporti peraltro testimoniati dalle agende di Dell’Utri, tenute dalla segretaria Ines Lattuada e sequestrate nell’ambito di un’inchiesta a suo carico sulle false fatture di Publitalia, presso la quale rivestiva la carica di amministratore delegato. Su quei fogli, più di una volta è annotato il nome di Mangano. In particolare il 2 novembre del 1993 (<>) e il 30 novembre 1993 (<>). Annotato, più volte, anche il nome di Gaetano Cinà. Con entrambi, l’imputato ammette di aver mantenuto rapporti, ma se per il secondo dichiara di non essere a tutt’oggi convinto che egli possa essere uomo d’onore, per il primo si giustifica dicendo: <>.

    I rapporti continuano
    Ma il collaboratore Vincenzo La Piana, fino al ’97 vicino alla famiglia di Porta Nuova e legato a Mangano sin dagli anni Settanta riferirà ben altro. I rapporti tra l’odierno senatore e lo “stalliere di Arcore”, dichiara, erano ancora così profondi che il senatore si impegnerà con ogni mezzo per alleggerire la sua posizione carceraria, aggravatasi, dopo l’arresto del 1994, nel 1995 in seguito all’applicazione nei suoi confronti del regime del 41 bis e al suo trasferimento dal carcere di Termini Imerese a quello di Pianosa.
    La Piana ricorda: <>.
    Tre sono gli incontri con il senatore narrati dal collaboratore. Nel secondo, specifica, Dell’Utri disse: <<’U cavaliere per ora è bersagliato. Comunque però ci interessiamo lo stesso perché merita il nostro interessamento>>. Quello di Mangano, aveva quindi specificato il politico, era diventato un <>.
    E a dimostrare questa affermazione, intervengono i pm, varia documentazione che testimonia come nella seconda metà del 1995 alcuni deputati visitarono il carcere di massima sicurezza di Pianosa e uno di questi si intrattenne con Vittorio Mangano. A seguito del colloquio, lo si evince da un dispaccio Ansa, si montò un caso politico sulla detenzione del boss, presentato in quell’occasione come persona le cui condizioni di salute erano incompatibili con il regime carcerario.
    Di tutt’altro genere il terzo incontro narrato dal La Piana. Che si inserisce nel contesto di un traffico di stupefacenti, organizzato dall’odierno collaboratore e Rosario D’Agostino, grosso produttore di cocaina residente in Colombia. Per il traffico, ricorda il La Piana, <> <>.
    <>. L’importo richiesto <>.
    L’incontro, ricorda il pentito, avviene all’interno di un capannone. Dove il Di Grusa si apparta con il senatore. Il Di Grusa <>. Successivamente il Di Grusa riferisce al La Piana: <>.
    E anche le dichiarazioni del La Piana, specificano i pm, sono confermate da moltissimi riscontri incrociati, tra i quali le risultanze del traffico telefonico, esaminate dal prof. Gioacchino Genchi, dei soggetti interessati alle vicende da lui narrate; l’identificazione dei luoghi nei quali sarebbero avvenuti i diversi incontri; le rivelazioni dei collaboratori di giustizia. Tra i quali gli stessi Cucuzza e Zerbo nonché Giovanni Brusca.
    Il Mangano, è il racconto di Brusca, <>. Tale impresa, sottolineano i pm, non può essere che quella di Sartori Natale il quale, è emerso dalle indagini della Dia di Milano, svolgeva lavori presso Publitalia 80 e nel contempo proteggeva la latitanza del Di Grusa, garantendo recapiti, utenze telefoniche e necessari documenti.

    Le elezioni
    del 1999
    Il 25 ottobre del 1995 cominciano per Dell’Utri i grossi guai giudiziari. Viene arrestato a Torino per aver inquinato le prove nell’inchiesta sui fondi neri di Publitalia e l’anno successivo, a seguito della sua elezione a deputato di Forza Italia, viene condannato in primo grado a 3 anni di carcere. L’accusa è false fatture e frode fiscale. In appello la pena sale a 3 anni e 2 mesi e in Cassazione, per evitare la carcerazione, patteggerà a 2 anni e 6 mesi definitivi. Da quel momento, Dell’Utri è un pregiudicato.
    Ma i guai non si fermano.
    Nel 1997 inizia a Palermo il processo che lo vede imputato di concorso esterno in associazione mafiosa. Insieme a lui, ma per associazione mafiosa, viene processato Gaetano Cinà.
    Nel corso del procedimento il senatore viene sorpreso da uomini della Dia mentre incontra il falso pentito Pino Chiofalo. Dalle indagini svolte dalla procura emerge l’esistenza di un complotto per usare falsi pentiti allo scopo di screditare quelli veri chiamati a testimoniare nel processo palermitano. Sia quelli che accusano Dell’Utri sia quelli che accusano i boss di Cosa Nostra.
    Dopo aver ascoltato le dichiarazioni di Chiofalo, che patteggia la pena e afferma che Dell’Utri gli assicurò che “lo avrebbe fatto ricco”, il gip dispone la cattura del senatore alla quale l’imputato sfuggirà perché la camera, a maggioranza Ulivo, negherà l’autorizzazione.
    Nel 1999 Dell’Utri è candidato al Parlamento europeo nei collegi Sicilia e Sardegna.
    Dalle intercettazioni effettuate nell’ambito dei procedimenti “Amato” e “Ghiaccio 2”, relativi a soggetti vicini a Bernardo Provenzano, emerge nuovamente l’importanza rivestita all’interno di Cosa Nostra dal senatore forzista.
    Di estremo rilievo i colloqui registrati dagli inquirenti tra Carmelo Amato e le persone a lui legate, tutte orbitanti attorno alla famiglia di Malaspina.
    Tra questi, quelli effettuati all’interno dell’autoscuola “Primavera”, gestita proprio dall’Amato, dove, a detta di Antonino Giuffré, <>.
    Il 5 maggio del 1999, Amato e Michele Lo Forte discutono delle vicine elezioni del 13 giugno ed in particolare, annotano i pm, <>.

    AC: …dobbiamo portare a Dell’Utri…
    LM: ..ppii... esce Dell’Utri
    AC: compare lo dobbiamo aiutare perché se no lo fottono
    […]
    AC: eh… compare se passa lui e sale alle europee non lo tocca più nessuno

    In altra conversazione l’Amato dice testualmente: <>.
    E’ invece Gioacchino Severino, rivolto sempre all’Amato, a riferire: per l’elezione di Dell’Utri <>.
    Ma occorre fare attenzione, sollecita il 5 giugno il Lo Forte, che parla dello <>, dato che vi è il pericolo di essere seguiti e fotografati e, specifica, <
  • >.
    Tra i soggetti gravitanti attorno all’autoscuola vi è infatti anche l’imputato Gaetano Cinà.
    Con un ruolo operativo, all’interno della Cosa Nostra di Provenzano, evidentemente per effetto dei suoi rapporti con Dell’Utri.
    <>, sono le parole di Cinà, rivolte all’Amato che, dal canto suo, risponde: <>.
    Il 13 giugno Dell’Utri viene eletto eurodeputato ed entra a far parte della Commissione Giustizia del Parlamento Europeo.

    Gli impegni
    con Cosa Nostra
    Il 13 maggio del 2001 Dell’Utri viene eletto senatore della Repubblica.
    Dalle intercettazioni ambientali disposte a casa del boss Giuseppe Guttadauro, reggente del mandamento di Brancaccio, si sente ancora parlare di lui.
    Il 9 aprile del 2001, Guttadauro afferma che il politico aveva preso degli impegni con l’associazione mafiosa nel 1999, ma che <>.
    L’unica persona con la quale aveva preso l’impegno del ’99, specifica Guttadauro, <>, <>, della cosca di Villagrazia.
    <>. E quindi il discorso si sposta sui giornalisti. E’ ancora Guttadauro a chiedere al suo interlocutore, Salvatore Aragona, di ottenere una visita di Giuliano Ferrara o Rocco Buttiglione presso l’Ucciardone per verificare le condizioni dei detenuti e farne oggetto di dibattito. Aragona, in risposta, propone di attivare per questo scopo Giancarlo Lehner o Lino Jannuzzi, quest’ultimo a mezzo del Dell’Utri. <>.
    Il 9 aprile del 2001, proseguono i pm, <>.
    A pochi giorni dalle elezioni Aragona e Guttadauro discutono sulla necessità di <> Dell’Utri <>, probabilmente, aggiungono i giudici, per non inguaiarlo ed appoggiarlo a Palermo. In primo luogo, ragiona Guttadauro, <> bisogna <> giudiziari e poi, se viene a Palermo, <>.

    Conclusioni
    Avrà rispettato il senatore di Forza Italia quegli impegni presi con l’organizzazione mafiosa?
    Di sicuro c’è che a seguito delle dimissioni di Domenico Contestabile, Marcello Dell’Utri, su richiesta di Forza Italia, ha recentemente ottenuto la nomina di componente della delegazione italiana presso l’assemblea del Consiglio d’Europa e l’assemblea dell’Ueo.
    Per tale motivo godrà dell’immunità parlamentare, e in una forma particolarmente estesa.
    E una volta parlamentare, come dice il boss Guttadauro nel corso di un’intercettazione risalente al 21 aprile 2001, <<è stato uno schiaffo alla Procura>>, perché <>.
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