domenica 4 ottobre 2009

mercoledì 16 settembre 2009

Forlì. Crac Parmalat, Unicredit condannata a risarcire 278mila euro.

Romagna Oggi 15 Settembre 2009.

FORLI' - Procede lenta ma inesorabile la macchina della giustizia sulle responsabilità delle banche, ad anni di distanza, dai default di bond argentini al crac Parmalat. Nelle aule di giustizia le cause giungono a conclusione. Sono sette le sentenze piu' recenti, sei di primo grado e una non definitiva, trovate dall'AdnKronos, che vedono protagonisti alcuni istituti bancari italiani, grandi e piccoli: anche a Forlì un pensionato ha avuto ragione in primo grado, con un risarcimento di 278mila euro.

Le banche considerate sono il Banco di Brescia (gruppo Ubi Banca), la Bcc di Busto Garolfo e Buguggiate, la Cariparo (gruppo Intesa SanPaolo) e la stessa Intesa SanPaolo, Unicredit Banca (gruppo Unicredit) e di Banca Toscana (gruppo Mps). I vincitori sono comuni risparmiatori: un ristoratore della provincia di Milano, un pensionato anch'egli del Milanese, una coppia di pensionati padovani, un pensionato di Forli', una coppia di imprenditori di Firenze, una donna di Desenzano del Garda e due donne di Milano.

In particolare il Tribunale di Forli' ha condannato Unicredit Banca a restituire circa 278mila euro, oltre agli interessi, ad un pensionato forlivese, per acquisti di obbligazioni Ford e Parmalat, posti in essere, anche in questo caso, senza preventiva stipulazione di un valido contratto di negoziazione, in quanto il documento prodotto in causa non era sottoscritto dal funzionario della banca, ma solo dal cliente.

Interpellata sulla vicenda, UniCredit Banca precisa che "il Tribunale di Forli' ha dichiarato la nullita' delle operazioni contestate in quanto eseguite in forza di un contratto quadro che e' stato ritenuto nullo perche' stipulato prima dell'entrata in vigore del Testo Unico della Finanza e successivamente non aggiornato. Nelle motivazioni della sentenza, non si individua invece alcun riferimento all'invalida' degli ordini di acquisto riconducibile alla presenza o meno delle firme dei funzionari della banca".

Continua la banca: "La sentenza del Tribunale di Forli' si basa su un orientamento giurisprudenziale non univoco ne' consolidato. Per questo la banca sta valutando se interporre appello. Quanto all'entita' della condanna, dall'importo di circa 279mila euro deve essere detratto il valore dei titoli, per cui la quantificazione economica e' stimabile in circa 140mila euro''.

Manifestare per la libertà un senso ce l’ha. Sempre.


Manifestare per la libertà un senso ce l’ha. Sempre.

Pierpaolo Farina su Orgoglio Democratico del 15 - 09 - 2009.
Lo Show penso stia andando in onda adesso, mentre scrivo. Non ho intenzione di guardarlo, sinceramente, come promesso. In compenso qui a Milano si è scatenato il diluvio universale, a riprova del fatto che piove sempre sul bagnato.

La manifestazione del 19 settembre per la libertà di informazione sarà il primo di una lunga serie di prove di forza contro gli strappi istituzionali e costituzionali di questo premier da operetta che usa la televisione così come la usavano i sovietici ai tempi dell’URSS: del resto, i contratti multi-miliardari con Gorbaciov li stipulava il Cavaliere una ventina di anni fa con Publitalia ’80, a riprova del fatto che anche se erano insanguinati, quei soldi non gli facevano tanto schifo come dice oggi.

Certamente questa manifestazione non risolve nulla, ma un senso politico ce l’ha ed è chiaro e forte: di fronte alle svolte autoritarie non rimarremo in silenzio a farci castigare. Quindi sinceramente fatico a comprendere le dichiarazioni di esponenti radical-pd come Giulia Innocenzi che, dopo aver infarcito di anti-berlusconismo la sua boutade televisiva ad AnnoZero, sul suo blog fa sapere che se si continua così, la Sinistra continuerà a perdere: sindrome da Dolori del Giovane Democratico.

Più che domandarsi del perché della manifestazione, dopo queste e altre uscite dei radicali sulla giustizia (identiche a quelle di Berlusconi) ci sarebbe da chiedersi se il distillato di demenza e mediocrità che contraddistingue altri celebri radicali passati armi e bagagli altrove (da Rutelli a Capezzone) sia preparato industrialmente (visto che si diffonde così facilmente) oppure sia fatto in casa Pannella.


Come si fa a dire che la RAI va de-partitizzata, quando l’anno scorso Beppe Grillo, al V-Day 2 per la libertà di informazione, fu accusato di irresponsabilità e di estremismo perché rischiava di rompere il dialogo e fare regali a Berlusconi? Come si fa a dire che non ha senso l’appello sulla libertà di informazione di Repubblica, quando addirittura si crea un set cinematografico per l’arrivo del Presidente del Consiglio all’Aquila? (guardare per credere, a questo link: http://gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it/2009/09/15/trova-la-differenza/)


Io sono a Milano, quindi non potrò essere a Roma, anche per motivi di studio e di denaro, ma chi a Roma c’è già dovrebbe andare a manifestare, per far capire al Regime che non siamo 4 gatti, ma siamo milioni, in tutta Italia!


Sarà un caso, ma l’unico contratto firmato ad AnnoZero, oltre a quello di Santoro, è quello di Giulia Innocenzi, che sostituirà la Granbassi, impegnata nei Mondiali. Guarda un po’, mentre tutta la redazione, attualmente precaria e in attesa di rinnovo contrattuale, di AnnoZero andrà a manifestare, lei rimarrà a casa. Complimenti, hai capito come gira il mondo.


Una cosa, però: manifestare per la libertà un senso ce l’ha. Sempre.

Il pentito: Ilaria Alpi uccisa perchè aveva visto troppo.

Navi dei veleni, Greco: "Almeno altri 30 relitti"

Nico Falco su Julienews del 15 - 09 - 2009.
Navi ufficialmente inesistenti, caricate di veleni e affondate in mare, al riparo da occhi indiscreti. Un business capace di far girare cifre in quantificabili, e di ripagare ampiamente il costo delle navi distrutte. Del resto, il mare è molto più difficile da controllare rispetto alla terra. E così i trafficanti di rifiuti, che hanno fiutato l’affare già da molti anni, hanno continuato a fare soldi inabissando veleni sui fondali. La vicenda è salita alla ribalta dell’attenzione nazionale col ritrovamento del relitto del Cunski, in Calabria. Ma sui fondali potrebbero giacere oltre trenta relitti, tutti utilizzati per il medesimo scopo.

“E’ l’intero Mediterraneo, dall’Adriatico al Tirreno, dal Canale di Sicilia all’Egeo, ad essere coinvolto nell’inabissamento delle navi dei veleni, problema che oggi si presenta in Calabria, scoperto grazie alla testardaggine della Procura di Paola e della Regione”, spiega Silvio Greco, assessore all’Ambiente della Calabria. “Ora che il velo è stato alzato, - continua l’assessore, - bisogna realizzare una mappa mediterranea, perché mancano all’appello forse trenta mercantili utilizzati per far sparire rifiuti tossici, nocivi e radioattivi”.
Lo stesso Cuski, in realtà, era una nave inesistente. Ovvero, non avrebbe dovuto trovarsi lì. Secondo i registri risulta ufficialmente rottamata il 23 gennaio 1992 in India, nell'area di smantellamento di Alang, nel distretto di Bhavnagar. Uno scenario preoccupante, che dimostra come siano estesi e capillari i contatti di chi riesce a gestire tale traffico di rifiuti. Al punto da far sparire delle navi dietro una parvenza di legalità, in modo che nessuno possa chiedersi che fine abbiano fatto le imbarcazioni che, in realtà, vengono fatte affondare per nascondere sott’acqua i rifiuti pericolosi.

Ma la Calabria, da sola, non può occuparsi di questo problema. “Se il Governo italiano non si muoverà, - ha concluso Greco, - le nostre Regioni dovranno promuovere un incontro con Francia, Spagna, Grecia, Malta e Slovenia, paesi coinvolti dalle navi dei veleni. Dobbiamo chiedere l’intervento straordinario della Commissione Europea, per sapere dove si trovano i relitti ed avviare le operazioni di recupero e smaltimento. E’ evidente che questi rifiuti creano un problema all’interno dell’ecosistema mediterraneo e quindi a tutta la popolazione dei 22 paesi rivieraschi”.

Il traffico dei rifiuti potrebbe nascondersi anche dietro l’omicidio di Ilaria Alpi, la giornalista del Tg3 uccisa nel 1994 in Somalia assieme all'operatore Miran Hrovatin. Francesco Fonti, il collaboratore di giustizia che indicò la posizione della nave filmata in Calabria, intervistato da “Il Manifesto”, nel numero in edicola domani, racconta come la ‘ndrangheta gestisse parte delle rotte dei rifiuti pericolosi verso la Somalia. “Almeno uno dei quei viaggi l’ho organizzato io dall’Italia, - ricorda Fonti, - e utilizzammo una nave della Shifco”. I veleni, in partenza da Livorno, erano diretti a Bosaso. “Ilaria Alpi è stata uccisa perché ha visto quello che non doveva vedere nel porto di Bosaso, questa è l’idea che mi sono fatto”, continua il collaboratore di giustizia.

Finanziaria, non c’è un euro da spendere. Debito ai massimi, scendono le entrate.



Bianca Di Giovanni sull'Unita' del 15 - 09 - 2009.
Se i precari della scuola sono destinati a restare a casa, chi ha già una cattedra si prepara comunque a un anno magro. Sul fronte del pubblico impiego, infatti, i rinnovi contrattuali si preannunciano assai complicati. Le casse sono vuote. Si svuotano sempre di più, visti gli andamenti delle entrate e le uscite fuori controllo. Sarà difficile rispondere alle (legittime) richieste di aumenti. Anzi, stando a indiscrezioni da via Venti Settembre, dove i tecnici stanno allestendo la seconda “finanziaria snella” in Tremonti-style, la partita sarebbe già chiusa. Per ora ci si dovrà accontentare dell'indennità di vacanza contrattuale. Pochi spiccioli (circa 500 milioni negli anni scorsi), su cui pende però anche un altro rischio, oltre a quello dell'emergenza finanziaria: quello del nuovo modello contrattuale, che calcola quell'indennità in un modo diverso (non c'è più l'inflazione programmata, ma l'indice armonizzato europeo depurato dall'energia) e sulla base delle intese dei diversi comparti. Intese che non arrivano. Insomma, si è in un vero pantano.

MANOVRA
Ma torniamo ai fatti e ai numeri. Al Tesoro sono già pronti tre articoli della manovra 2009. Il primo – canonico – sui saldi da finanziare che presumibilmente indicherà la correzione già prevista nella manovra triennale dell'anno scorso. Il terzo articolo è semplicemente il rinvio alle tabelle, che riportano i tagli già approvati l'anno scorso. Per il 2010 era previsto un intervento di oltre 7 miliardi, che si sommano ai 13 di quest'anno. L'articolo 2 – il più corposo – non supera i 12 commi. Contiene disposizioni per le gestioni previdenziali (Enpals), interpretazioni autentiche di norme su prestazioni pensionistiche sull'agricoltura, e infine lo scoglio pubblico impiego. Tremonti non vorrebbe fare molto di più del minimo indispensabile, ma deve ancora incontrare il vulcanico Renato Brunetta, intenzionato a dimostrare come la sua riforma, insieme al nuovo contratto triennale voluto da tutte le parti sociali esclusa la Cgil, sia un Bengodi per chi lavora. Ma sarà molto difficile dimostrarlo, con le risorse a secco. Pare che il testo relativo ai pubblici sia ancora in gestazione: non si escluderebbe una retromarcia sul fronte della cadenza contrattuale (resterebbe biennale) e su quello della vacanza contrattuale. Come dire: il nuovo modello resterebbe congelato, in attesa di tempi migliori. Ma i pasdaran del new deal delle relazioni sindacali accetteranno? Certo, il ministro dell'Economia si ritrova con numeri difficili da gestire. Le ultime indiscrezioni parlano di possibilità di spesa autorizzate di non più di due miliardi, a fronte di oneri per circa 22 miliardi. Che vuol dire? Che la gran parte degli impegni pubblici rimarrà inevasa. Missioni internazionali, dotazioni per la sicurezza, trasferimenti agli enti locali. Tutto a rischio di tosatura. D'altro canto gli ultimi segnali sul fronte conti pubblici restano allarmanti. Il bollettino di Bankitalia ha segnalato ieri l'ennesimo record del debito pubblico, aumentato del 5,4% nei primi sette mesi dell'anno. Ma ancora più preoccupante è l'andamento delle entrate tributarie. In sette mesi sono “scomparsi” 8,3 miliardi dalle casse pubbliche (-3,7%), prosciugati dalla recessione e magari da qualche furbizia di troppo. Nel frattempo la spesa corrente aumenta in modo incontrollato: circa 20 miliardi in più del previsto. Esattamente quanto il ministro punta a risparmiare con le due manovre 2009-2010. Tagli sprecati, risparmi vanificati. Sulla carta non si comprende affatto il motivo della corsa della spesa: le politiche espansive in Italia sono molto ridotte rispetto ai partener stranieri (appena lo 0,8% del Pil, mentre gli altri stanno tutti sopra l'1%). Come dire: quei 20 miliardi sono sprechi, acquisti sbagliati, diseconomie di sistema.

martedì 15 settembre 2009

I politici italiani responsabili del declino.

Da Inviato Speciale del 14 settembre 2009.

Il Paese è travolto dalla crisi, ma nel Palazzo giocano a Risiko e i cittadini rimangono passivi.
Fini contro Bossi, Berlusconi che straparla, il Partito democratico in letargo pre congressuale, persino Di Pietro in trance e l’economia nazionale in coma. I giornalisti preoccupati per ‘l’attacco alla libertà di espressione’ diffondono ottimistici quanto improbabili dati, mentre il direttore del Fondo monetario internazionale, Dominique Strauss-Kahn, uno che se ne intende, dichiara senza mezzi termini: “La crisi economica globale continuerà, anche se Germania e Francia vedranno alcuni dati positivi nel secondo trimestre”.
Il presidente del Consiglio, nella sua abituale tendenza a dire tutto ed il contrario di tutto, sostiene più o meno che la crisi è alle spalle, il ministro Scajola che “abbiamo garantito la stabilità del bilancio e un ragionevole contenimento del deficit, pur nella grave crisi economico-finanziaria. Oggi possiamo affermare che lo stato della nostra economia è più confortante che nei mesi scorsi”.
Tremonti da parte sua è convinto che “la nostra ideologia è non avere ideologie” e pure che “la crisi finanziaria ha portato con sé la recessione, ma ci ha anche regalato un dividendo: la fine del conflitto sociale. Non è un caso se in Italia il grado di coesione è cresciuto e il numero di scioperi è radicalmente caduto”.
Ma come stanno le cose? Il Pil è, nella migliore delle ipotesi, il peggiore dal 1980 ed è crollato a meno 5,1 per cento. La bilancia commerciale totale ha segnato nel mese di giugno un saldo negativo di 631 milioni, in netto peggioramento rispetto all’attivo di 1,327 miliardi nello stesso mese del 2008. Il ricorso alla cassa integrazione è esploso, moltiplicato per cinque dal giugno all’anno precedente. In un anno si sono persi 100mila posti di lavoro e per i giovani, a maggio, la disoccupazione arrivava al 24,9 per cento. L’Istat ha annunciato che “l’utilizzo della cassa integrazione guadagni nelle grandi imprese è stato pari a 40,8 ore per mille ore lavorate. Il ricorso alla cig è aumentato di 32,4 ore per ogni mille ore lavorate in termini tendenziali”. L’anno scorso, le ore di cig erano 8,4 per mille lavorate, un quinto di quelle attuali. “Nel confronto tra il primo semestre del 2009 e il corrispondente periodo del 2008 il ricorso alla cig ha registrato un incremento di 29,2 ore per ogni mille ore lavorate” per l’Istituto di statistica. Nell’industria le ore di cig utilizzate “a giugno sono state pari a 111,6 per mille ore lavorate. Il ricorso alla cig è cresciuto di 90,2 ore ogni mille ore lavorate rispetto a giugno 2008″. Nei servizi le ore di cig utilizzate a giugno sono state pari a 3,2 ore per mille ore lavorate con un aumento di 2,2 ore rispetto allo stesso mese dell’anno precedente.
I consumi sono in picchiata. In uno studio della Coop Italia si rileva un calo del 15,1 per cento di vendita per le auto, del 10,6 per l’arredamento, del 7 per gli elettrodomestici. Si risparmia su abbigliamento e calzature, con una flessione del comparto del 7,5 per cento. In difficoltà il settore del ‘tempo libero’: ristoranti e vacanze. Per l’alimentare il 40 per cento delle famiglie italiane dichiara di risparmiare sui prodotti di prima necessità e si stima una riduzione dei consumi pari all’1,9 in quantità.
I numeri agghiaccianti della crisi rimangono tra le righe dell’agenda politica. I ‘manovratori’ sono accupati a discutere di ’schieramenti’, perchè per loro l’elemento più importante è la lotta per il potere, non certo il dovere di governare con saggezza e nell’interesse dei cittadini.
Il Cavaliere, tra un party ed una gaffe, rimane forte nel suo partito, anche se qualcuno pensa che sia arrivato il momento di pensare al dopo, anche perchè alcuni settori dell’impresa e altri in Vaticano sono preoccupati per la situazione. Il presidente della Camera non condivide più la strategia del partito azienda di Berlusconi, le sue manie imperiali e lo strapotere della Lega, ua forza politica priva di idee ed alla ricerca di voti facili, ramazzati a suon di slogan contro i migranti.
Nel centro sinistra sembra che Rutelli, ormai del tutto ininfluente, voglia marciare verso il centro, perchè l’ex laico, l’ex radicale, l’ex sindaco di Roma, l’ex ministro vorrebbe tornare a contare qualcosa. Casini vede il suo progetto di ‘regista centrale’ di nuovo in voga e si prepara ad accogliere i nuovo possibili compagni di ventura, anche se rischia di vedersi rubare il posto da un Fini più carismatico di lui. La sinistra ‘radicale’ è in sala di rianimazione e pare siano finiti anche i farmaci (il denaro per finanziarsi) e così si rischia l’imminente decesso.
I sindacati, che dovrebbero protestare un’ora si ed una anche per l’esplodere della cigs, per la disoccupazione, per l’inefficacia dell’azione governativa non si sa bene cosa facciano, anche perchè i giornali ed i tg non lo dicono e quindi nessuno lo sa. Di certo la Cisl e la Uil, in un rinnovato impegno a trattare con governo e Confindustria per motivi di ‘utile aziendale’ lavorano col fine di isolare la Cgil, nella speranza di colpire finalmente a morte il più forte e competitivo concorrente.
Una oligarchia di politici, imprenditori, sindacalisti e portaborse, supportati da veline, letteronze e da un buon numero di ‘lavoratori dell’informazione’ stanno affondando il Paese.
Il degrado italiano è visibile ad occhio nudo. Servizi sempre meno efficienti, aumenti di tariffe e servizi, stipendi immobili, opportunità di lavoro zero per giovani e meno giovani, città sporche, affitti da capogiro, treni sporchi, aerei in ritardo, scuola nel caos, università in pezzi, ricerca inesistente, formazione pessima, innovazione dimenticata.
Eppure non si vede neppure all’orizzonte un catalizzatore in grado di convolgere la società civile per arrivare all’rmai improrogabile ’sostituzione’ della casta con rappresentanti dei cittadini capaci ed in grado di ‘rifondare’ la Repubblica.
Appare chiaro che se non si troverà al più presto il bandolo della matassa i prossimi mesi rischiano di produrre danni forse irreparabili e di allargare la distanza tra chi possiede imense fortuna e gli altri, compreso il ceto medio destinato a diventare sempre più povero.

Scudo fiscale, il regalo di Tremonti.

Pietro Salvato su Giornalettisno del 14 settembre 2009.


Uno studio pubblicato dal Nens (acronimo di Nuova Economia Nuova Società ) l’istituto fondato dagli ex ministri Vincenzo Visco e Pier Luigi Bersani, ha messo a confronto lo “Scudo fiscale” italiano con gli analoghi provvedimenti varati dagli altri Paesi.

Il “nostro” scudo fiscale, fortemente voluto dal Ministro dell’Economia Giulio Tremonti, prevede che gli italiani possano regolarizzare ricchezze mobiliari (titoli, conti correnti, polizze ecc.) e patrimoni immobiliari detenuti illegalmente all’estero e mai comunicati al fisco. Per mettersi al sicuro basterà pagare una somma modesta. In particolare, i contribuenti infedeli potranno aver salvi i loro capitali illecitamente “oscurati” versando al fisco il 50% del rendimento teorico che i fondi detenuti illegalmente all’estero avrebbero potuto produrre ogni anno.

DUE CONTI - Il rendimento teorico è fissato dalle stesse norme varate dal Governo e dal Parlamento al 2%. Il conto è presto fatto: per essere in regola si dovrà pagare l’1% l’anno dell’intero ammontare, per un periodo massimo di cinque anni. Neanche Babbo Natale avrebbe saputo fare di meglio! Per regolarizzare la propria posizione i contribuenti infedeli potranno inoltre giovarsi del completo anonimato. Per legge il loro nome sarà gelosamente custodito dagli intermediari bancari e finanziari ai quali sarà affidata l’operazione. Da quel momento in poi non potranno subire nessun altro intervento fiscale sulle ricchezze messe in regola.

FORZA EVASORI! - Lo scudo fiscale italiano s’inserisce nell’ambito di una vasta azione intrapresa da diversi Stati nei confronti dei paradisi fiscali, come ci hanno ricordato, al fine di esaltarne le virtù – quasi taumaturgiche – tutte quelle Tv ed organi d’informazioni sempre più proni ai diktat governativi. E’ evidente e necessario, a questo punto, chiarire un equivoco che ha aspetti clamorosi: l’intervento italiano è stato presentato come un atto di battaglia contro l’evasione fiscale e i paradisi fiscali, una lotta a muso duro da fare fianco a fianco insieme ai principali partner europei e americani. La realtà, come spesso accade con gli annunci “spot” di questo governo, è un po’ diversa se si mettono a confronto, punto per punto, le norme italiane con quelle approvate da altri Stati. Se si studiano bene le procedure, le somme da versare e le regole sull’anonimato, si scopre che lo scudo fiscale italiano sembra fatto apposta per favorire gli evasori. Una realtà che contraddice platealmente le affermazioni del ministro Giulio Tremonti che proprio a Bruxelles ha assicurato recentemente che lo scudo fiscale “più conveniente” è quello britannico. Nello studio del Nens è stato perciò riportato, punto per punto, che cosa prevedono gli scudi fiscali varati da Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna. Inoltre, è stato fatto il confronto sulle somme da pagare per ogni 100 euro da regolarizzare in Italia, Usa e Gran Bretagna. La differenza è abissale. Ecco qualche esempio.

NEGLI USA - Revised IRS Voluntary Disclosure Practic

1. L’autodenuncia è volontaria e non garantisce l’immunità quando il reddito trae origine da fonti illecite.

2. L’auto-denuncia volontaria consegue i propri effetti solo quando la “comunicazione” è veritiera, tempestiva (precedente l’inizio di controlli), completa e quando :

- il contribuente mostra la volontà di cooperare, e nei fatti coopera, con l’IRS per determinare correttamente il proprio debito tributario;

- il contribuente si impegna a pagare tutte le imposte e gli interessi e le sanzioni come stabilite dall’IRS.

3. Ciascun contribuente che contatta personalmente o attraverso un proprio rappresentante in relazione all’auto-denuncia sarà indirizzato to Criminal Investigation per la valutazione dell’auto-denuncia.

4. Le richieste anonime non sono ammesse. Entro il 23 settembre, ogni contribuente che si denuncia comunica gli estremi dei suoi conti e le modalità con cui ha evaso. Questo crea una rete di informazioni vasta. Tanto che un nuovo faro è stato acceso su Credit Suisse , Jiulius Baer,Kantonalbank, Union Banciare Privee, oltre un’altra decina di istituti europei.

5. Quanto si paga. Sul sito è disponibile anche la Guida del 25.8.2009 “Voluntary Disclosure. Questions and Answers”. Contiene una serie di simulazioni sulle penalità applicabili. In genere, oltre alle imposte ordinarie dovute, si paga una imposta dell’1,75% all’anno sul capitale inizialmente espatriato, una sanzione del 20% di tale imposta, e una addizionale del 20% sul capitale iniziale aumentato degli interessi virtuali riscossi nei paradisi fiscali.

IN FRANCIA - Regularisation des avoirs à l’etrangèr. La cellule de regularisation

1. La regolarizzazione è disposta in via amministrativa. E’ stata istituita dalla direzione generale delle imposte “La cellule de regularisation” che accoglie i residenti francesi che detengono attività non dichiarate nei paradisi fiscali.
2. La regolarizzazione non consente l’anonimato, richiede il pagamento di imposte, interessi e sanzioni amministrative.

3. Le sanzioni, da concordare con l’amministrazione, possono arrivare fino all’80% delle imposte evase. In genere si attestano sul 15-20%, oltre al pagamento delle tasse evase sugli interessi.

4. La regolarizzazione evita solo le conseguenze penali e comporta normalmente, a seconda dei casi, una riduzione delle sanzioni amministrative. Questa regolarizzazione, che non è per niente una amnistia fiscale, permetterà ai contribuenti interessati di mettersi in regola con le regole fiscali e di evitare così le eventuali conseguenze penali.

5. I contribuenti interessati. I residenti in Francia che detengono averi (conti correnti, depositi, titoli o attivi diversi…) nei paradisi fiscali non dichiarati.

6. Modalità di regolarizzazione. Sono due i passaggi previsti:

- pagamento immediato delle imposte dovute in relazione a questi averi (imposte sul reddito, imposta sul patrimonio, diritti di successione) nei limiti della prescrizione legale;

- applicazione di interessi di mora e sanzioni.

7. Condizioni per la regolarizzazione

- Origine lecita dei fondi (le somme non devono provenire da attività illegali, criminali, terroristiche).

NEL REGNO UNITO - New Disclosure Opportunity (NDO)

1. La HM Revenues & Customs (HMRC), l’amministrazione fiscale del Regno Unito, consente ai contribuenti una New Disclosure Opportunity (NDO) dopo la Offshore Disclosure Opportunity (ODF) del 2007. L’opportunità è offerta per un periodo limitato, dal 1/9/2009 al 12/3/2010.

2. Non è ammesso l’anonimato. Anzi è prevista addirittura la pubblicazione dei nomi dei contribuenti che hanno commesso gli illeciti più rilevanti.

3. Che cosa si paga. E’ previsto il pagamento di tutte le imposte sui redditi (più gli interessi) relative ai rendimenti delle attività non dichiarate (e non relative allo stock delle attività) per 20anni, ridotti a 10 in caso di attività detenute con il Liechtenstein con cui è stato firmato un accordo ad hoc.

4. Le sanzioni. Sanzioni ridotte al 10% delle imposte dovute, in luogo del 50% (ovvero ridotte al 20% se il contribuente è un soggetto cui HMRC aveva comunicato la possibilità di avvalersi dell’ODF e non lo aveva fatto).

5. Le condizioni. E’necessaria una piena auto-denuncia di tutti i debiti fiscali non dichiarati, e non solo di quelli relativi a conti o attività offshore.

LE PERVERSIONI ITALICHE - In sintesi, affermano gli esperti del Nens, per sanare 100 euro di capitali evasi e detenuti all’estero, nel Regno Unito e negli USA si pagano circa 50 euro, in Italia, si pagano al massimo 5 euro. Se fossero stati regolarmente dichiarati, i 100 euro di redditi evasi dagli italiani avrebbero dovuto pagare imposte ordinarie intorno ai 43 euro. Inoltre, l’Italia si presenta in clamoroso ritardo nella procedura di rinegoziazione degli accordi con i paradisi fiscali intenzionati ad uscire dalla black list dell’Ocse. Proprio quest’atteggiamento rinunciatario nei confronti di questi paesi spiega il costo così modesto chiesto per la sanatoria all’evasore italiano. In altri termini, tanto più è efficace la negoziazione e più ampio il varco aperto nel segreto bancario, tanto più elevato può essere l’onere per la regolarizzazione. Infine, rischia pure di cadere la “scusa nobile” di condonare gli evasori al fine di far ritornare i capitali condonati in Italia e sostenere gli investimenti delle imprese in una difficilissima fase di crisi. Infatti, nei giorni scorsi, diversi quotidiani hanno riportato alcuni rumors secondo i quali al ministero dell’Economia ora si penserebbe di estendere la possibilità di regolarizzare i capitali mobili anche senza rimpatriarli (come negli scudi-condoni del 2002 e 2003) oltre l’ambito dei 27 paesi dell’Unione Europea. Insomma, oltre al danno la beffa. Prima sono stati cancellati i principali provvedimenti antievasione e sono state ridotte le sanzioni. Adesso è arrivato il condono a prezzi da saldo. E così la giostra dell’evasione può riprende allegramente a girare. Colpa di un provvedimento non solo ambiguo (ad essere generosi) ma, come si vede, dagli effetti estremamente perversi di cui, statene certi, molti organi d’informazione si guarderanno bene dal denunciare.

lunedì 14 settembre 2009

Notizie di Stato

Editoriale di Concita De Gregorio del 13 - 09 -2009

La guerra preventiva ai giudici antimafia è cominciata da settimane. Ha dato il via all'offensiva come sempre il premier in persona, i suoi giornali si sono accodati. «Rispolverano persino i rapporti professionali del fratello del generale Mori col gruppo Finivest», hanno scritto pochi giorni fa per sostenere, naturalmente, che è una campagna diffamatoria: da esperti del ramo le riconoscono in via preventiva. È comprensibile che gli esiti delle inchieste parlemitane sulla trattativa fra Stato e Mafia preoccupino assai il presidente del Consiglio e i suoi soci ed amici più fidati, Dell'Utri per primo. L'autunno si annuncia denso di novità, dunque bisogna cominciare col depistare, diffondere nebbie, confondere le carte. Le carte, però, hanno il difetto - finchè non scompaiono, certo - di essere conservate e spesso trasferite in file, ultimamente. Di un file dimenticato vi parliamo oggi. Un file che è adesso sul tavolo della procura di Palermo. Vi si narra dei rapporti di lavoro tra i fratelli di Mori e di Berlusconi, Alberto Mori e Paolo Berlusconi, soci all'inizio degli anni Novanta in una ditta di costruzioni siciliana già oggetto d'indagine per un giro d'affari in odor di mafia. A lungo si è sostenuto che fosse una menzogna, il generale stesso ha smentito in un aula di tribunale che quel Mori fosse suo fratello. Oggi in una relazione della Dia si legge che c'è stato, è vero, un errore di trascrizione materiale quanto al nome di battesimo del fratello di Mori - Alberto e non Giorgio - ma che la persona di cui si tratta è proprio lui: è lui il socio di Paolo Berlusconi nella Co.Ge., a luglio del 1999 oggetto di indagine a proposito di un «tavolo di appalti» con la mafia. Il file dimenticato non è oggi oggetto di una nuova indagine, non c'è altro da sapere quanto a quello: i magistrati di Palermo lo hanno acquisito perché è utile a inquadrare meglio la posizione del generale Mori, lui sì protagonista dell'inchiesta sulla trattativa di cui parla il figlio dell'ex sindaco Vito Ciancimino. L'inchiesta sul «Papello» che conterrebbe le prove dei rapporti tra uomini dello Stato e vertici di Cosa Nostra negli anni terribili delle stragi. Di Mori e del processo nascosto vi abbiamo parlato a lungo qui fin dal gennaio scorso. Continueremo a tenervi aggiornati.
Sono notizie che difficimente sentirete in tv. In Rai da ieri l'unico autorizzato a parlare delle gesta del Presidente del Consiglio è Bruno Vespa. Martedì Berlusconi sarà all'Aquila per la cerimonia di consegna delle prime casette ai terremotati. «Ballarò» avrebbe ripreso la programmazione d'autunno proprio martedì con una puntata sull'Aquila. Niente da fare. Per ordini superiori il programma di Giovanni Floris è annullato, slitta a giovedì: dell'Aquila si occupa già Bruno Vespa con uno Speciale Tg1 ed è opportuno che gli italiani vedano solo quello. La Voce del Padrone. Non poter scegliere se seguire la stessa notizia su RaiUno o su RaiTre è l'evidenza del punto in cui siamo. «Non c'è nulla nell'epoca moderna che influenzi le persone più della televisione», diceva il premier qualche giorno fa a una tv tunisina. Appunto. Spengiamola, ora, e troviamoci in piazza il 19.

REGIME!

Pierpaolo Farina su Orgoglio Democratico del 13 settembre 2009

“La servitù, in molti casi, non è una violenza dei padroni, ma una tentazione dei servi.”
(Indro Montanelli)


Come al solito, aveva ragione Montanelli. Perché in questi giorni non abbiamo assistito ad imposizioni del Re Sòla ai suoi dipendenti, stipendiati per l’80% con i soldi dei cittadini e non i suoi, bensì a veri e propri atti di prostrazione nei suoi confronti da parte dei suoi vassalli, valvassini e valvassori più zelanti e lecchini.


Non è più come ai tempi dell’Editto Bulgaro, dove Berlusconi ordina e gli altri eseguono: adesso la gara tra i servi e i parassiti che vivono del suo successo, della sua fama e del suo denaro (che nel caso Rai è anche quello dei contribuenti), sta tutta nell’intercettare i desideri del Capo, nel meritare segretamente la sua stima e la sua benevolenza senza nemmeno farlo parlare.


Chi ha chiesto a Feltri di iniziare il killeraggio mediatico di Dino Boffo, direttore di Avvenire? Nessuno, ma il padrone qualche giorno prima aveva espresso malumori nei confronti dei presutni fraintendimenti della stampa cattolica e di Avvenire in particolare. E se uno assume un picchiatore, non ci si può aspettare che rimanga lì a guardare, picchia e basta, senza preoccuparsi delle conseguenze.


E che dire del fantasmagorico Minzolini, in arte Scodinzolini, che è riuscito ad occultare tutto il grande scandalo delle escort a Palazzo Chigi e a Villa Certosa, avio-trasportate con i soldi dei contribuenti in alcuni casi? Nessuno gli aveva chiesto di andare in televisione a spiegare che gli scandali del premier sono gossip, mentre lo stomaco pieno di pillole di Micheal Jackson non lo è. Eppure lo ha fatto, scatenando critiche a non finire, ma è sempre lì, al suo posto, alfiere dell’ipocrisia berlusconiana e della falsa imparzialità.


Volete dimenticarvi del buon Dg Rai Masi, che intercettando i voleri del capo è riuscito in pochi mesi a far perdere all’azienda 150 milioni per i prossimi 3 anni con il divorzio non consensuale da Sky, a mettere in forse AnnoZero (in onda solo grazie alle sentenze del Tribunale del Lavoro), Report della Gabanelli, Parla con Me della Dandini, Che tempo che fa di Fazio e oggi addirittura Ballarò del mite Floris?


Il vespino di Sinistra, come lo chiamano in certi ambienti, è stato censurato per dare il monopolio esclusivo della prima serata della tv pubblica al Vespa originale, l’insetto che da anni si prostra ai piedi del suo padrone in ogni puntata e che percepisce anche uno stipendio come editorialista di Panorama (cosa che sarebbe vietata, ma per Vespa si fa un’eccezione).


La motivazione ufficiale della Direzione Generale della Rai è che si vuole “valorizzare un momento importante per il Paese”. Per il Paese o per il Presidente del Consiglio? Perché dubitiamo che l’uomo che non ha resistito a prendere la parola al funerale di Mike Bongiorno per farsi il suo salutare bagno di folla di fronte a ben 3 dirette televisive, stia a casa nel momento in cui verranno consegnate le prime case per i terremotati.


Ciò che è chiaro è che c’è una perversa concezione della televisione pubblica nel centro-destra, tale per cui la Rai non è l’espressione pluralistica delle varie anime del Parlamento, e quindi del Paese, bensì è una Televisione di Stato che deve fare gli interessi dello Stato. Cosa non di poco conto in un Paese dove il Presidente del Consiglio è solito ripetere “lo Stato sono Io”, in alcuni deliri senili di assolutistica potenza e prepotenza, ed è anche il proprietario dell’altra metà del panorama televisivo italiano.


In un Paese nel quale il 69% dei cittadini afferma per certo di formare la propria opinione politica, sociale, culturale attraverso la televisione, avere il 90% di essa nelle proprie mani non solo assicura duratura stabilità politica, ma getta le fondamenta per un futuro regime. O per una Democrazia da balcone. E sappiamo che il balcone di Silvio Berlusconi non è quello di Palazzo Venezia e nemmeno quello di Casa Rosada: il balcone di Berlusconi è la televisione!

E gli USA dissero basta col PCI

Nicola Tranfaglia su Antimafia 2000 del 13 settembre 2009

In un saggio di Gentiloni Silveri l’attacco di Ford a Moro che stroncò sul nascere l’inclusione dei comunisti nel governo.

In un colloquio cruciale che si svolge ad Helsinki il primo agosto 1975 tra la delegazione italiana e quella degli Stati Uniti ai massimi livelli (da parte americana il presidente Gerald Ford e il segretario di Stato Henry Kissinger,da quella italiana il presidente del Consiglio Aldo Moro e il ministro degli Esteri Mariano Rumor)e che oggi Umberto Gentiloni Silveri è in grado di pubblicare, perché ormai accessibile,nel suo interessante libro su L’Italia sospesa. La crisi degli anni settanta vista da Washington (Einaudi Storia,pp.238,28 euro) emerge con grande chiarezza il contrasto tra la posizione del governo americano e di quello italiano(almeno di quello guidato da Moro)su un aspetto fondamentale della crisi politica italiana:il giudizio sul partito comunista di Enrico Berlinguer.
Vale la pena- per un discorso nuovo e più realistico sulla crisi italiana in quegli anni-riportare almeno in parte, traendolo da quel volume lo scambio di battute tra Ford e Moro,come tra Kissinger e il nostro primo ministro-presidente del Consiglio .
“Il trait-d’union-scrive l’autore-viene offerto da un giudizio sprezzante di Ford sul leader socialista Mario Soares che avrebbe sostenuto il PCI nelle elezioni italiane.Moro non è d’accordo e chiarisce che il sostegno era rivolto a candidati socialisti a Roma e a Napoli.La situazione italiana non è paragonabile agli altri paesi del continente,prosegue il primo ministro:”Purtroppo molti elettori preferiscono guardare a Berlinguer e al PC1 piuttosto che ai socialisti.”
….Aldo Moro non si fa sfuggire l’occasione:”Stanno cercando di essere moderati(…)E molti cominciano a pensare che i comunisti italiani siano dei socialdemocratici, anche gente di affari lo pensa.I comunisti fanno appello a tutte le classi(…)Quello che deve ricordare,Presidente(si svolge direttamente a Ford)è che non tutti coloro che votano comunista sono comunisti.Molti di loro sono in favore della libertà,delle libertà.”
Ford non concorda e seccamente domanda quali siano i rapporti con Mosca.Moro non accetta semplificazioni:”Non sembrano molto vicini al momento.Ci sono frizioni e contrasti,chiedono con insistenza maggiore autonomia.”ma come-interviene Kissinger-in Polonia mi hanno detto che i comunisti locali sono molto legati al Pci”. “Questo è possibile –replica Moro(…)Non dico che non vi siano legami,ma loro hanno autonomia”. Ford insiste sulle proprie ragioni:”Stanno chiedendo di entrare al governo dopo le recenti elezioni? Se fossero al governo,per noi sarebbe molto difficile spiegare come l’Italia possa rimanere nella Nato”.”Certamente-replica Moro-loro al momento non lo chiedono.Si dicono favorevoli alla Nato ma noi non ci crediamo.”.Ma Kissinger rincara la dose:”Sarebbe completamente incompatibile con la permanenza nella Nato l’ingresso dei comunisti al governo.
Moro dà loro ragione, precisando puntigliosamente che nella società italiana la percezione del Pci è differente dagli stereotipi della guerra fredda e che “le barriere contro i comunisti non sono grandi e resistenti come in passato”.E ancora quasi a voler evidenziare le contraddizioni statunitensi:”Come possiamo tenere queste rigide barriere se voi stringete la mano a Breznev e incontrate i sovietici:” Ford replica con durezza:”Le due dinamiche non sono compatibili.Questa è distensione e se io incontro Breznev non significa che lo voglio fare vicepresidente.Non capisco come non si possa distinguere una mela da un’arancia.” I toni si fanno più accesi.”
Come si può vedere dal colloquio, ma anche da altri elementi che l’autore può trarre dagli archivi personali di Aldo Moro, che da poco sono diventati consultabili, è proprio in quel colloquio che emerge il contrasto di fondo tra la strategia di Moro e del partito cattolico fino a quando lo segue e il governo americano. Ed è proprio allora che lo statista democristiano diventa l’ostacolo principale del governo repubblicano di Ford.
Il problema centrale della situazione italiana emerge con chiarezza da Washington:la guerra fredda nell’interpretazione di Ford e di Kissinger non consente l’assunzione del governo da parte di una coalizione di centro-sinistra che includa il PCI. Moro,invece,e la maggioranza democristiana che ha espresso la segreteria Zaccagnini,ritiene che quel passo sia necessario di fronte ai problemi gravi dell’Italia,all’espandersi del terrorismo,ai pericoli che corre la repubblica.
Il contrasto è grave e non prevede in quel momento un accordo tra i due alleati.L’Italia è in bilico e la soluzione politica non appare chiara.
Di fatto sarà l’intervento del terrorismo,con il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro,a modificare la situazione politica e a segnare la svolta che farà fallire i governi di unità nazionale e instaurare la coalizione di pentapartito in funzione anti-Pci.
Ma di quale terrorismo si trattò veramente? Su questo punto,a distanza di 40 anni dagli avvenimenti,esistono ancora aspetti non chiari su cui i documenti americani come quelli personali di Aldo Moro non permettono da svelare completamente gli interrogativi ancora aperti.
Ma il libro di Gentiloni Silveri conferma in maniera inequivocabile il contrasto tra il governo americano e la politica di Aldo Moro con l’apertura al PCI.
E questo è un dato di fatto che le spiegazioni semplicistiche circolate negli ultimi anni (come: sappiamo tutto e non c’è nessun retroscena a livello politico, non possono più mettere in discussione.)
Purtroppo alcuni testimoni e co-protagonisti, a cominciare dal senatore Andreotti o dal senatore Cossiga, non hanno ancora dato testimonianze complete e attendibili su quel periodo,l’archivio Vaticano è inaccessibili e molti documenti americani sono ancora segreti per non parlare di quelli italiani, tuttora coperti dal segreto di Stato.
C’è insomma ancora da lavorare molto per poter arrivare a una ricostruzione attendibile degli avvenimenti e del prezzo effettivo pagato dagli italiani per superare la crisi degli anni settanta.
Possiamo dire che stiamo ancora pagando , come si vede con chiarezza dai difetti della nostra democrazia e dai pericoli che sicuramente ancora corre.
Le cose non accadono mai a caso e la corsa attuale al consolidamento di un populismo autoritario nel nostro paese rivela il maggior rischio che abbiamo davanti.
Ma la maggioranza degli italiani, stordita da un bombardamento mediatico a senso unico e da una persistente indifferenza favorita anche dalla crisi economica,sembra non rendersene ancora conto malgrado che in autunno sia prevista il varo della legge sulle intercettazioni telefoniche che rappresenterà un nuovo,forte giro di vite contro i magistrati e i giornalisti,ma in definitiva contro tutti i cittadini che vogliono sapere quel che succede nel paese,quali reati si commettono,come cambia la società italiana.

«La verità è che restiamo senza case» «Dopo cinque mesi non sappiamo dove passeremo l'inverno e gli alberghi sono già pieni di sfollati»

Lettera dei terremotati a Napolitano:

TRE COMITATI SCRIVONO AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA DOPO AL SUA VISITA IN ABRUZZO

Caro Presidente,
le cronache sulla sua visita di ieri nella nostra città, a cinque mesi dal terremoto del 6 aprile, parlano del calore con cui gli aquilani l'hanno accolta e riferiscono del conforto da lei espresso nel vedere, dopo tutto quello che è successo, “fiducia e gente sorridente” che “crede molto nelle istituzioni”. Altro, a parte le note di colore, non è stato riportato. Sappiamo che ha parlato con i responsabili della Protezione Civile, con i rappresentanti locali. Ha avuto modo di chiedere, di vedere e di informarsi. Ma non ha aggiunto altro.

E' vero caro Presidente. Noi, anche quelli che non erano lì a stringerle la mano o ad ascoltare l'inno di Mameli, crediamo molto nelle istituzioni. Anzi moltissimo. Perché per noi le istituzioni rappresentano la possibilità di affrontare insieme i problemi di una comunità per risolverli insieme. Quindi dato che di problemi, dal 6 aprile, ne abbiamo un po' più del normale, nelle istituzioni crediamo molto, anche perché ne abbiamo molto bisogno. Questo lei lo sa, lo ha visto. Ha visto la distruzione immensa. Sa, come tutti noi, che da un evento del genere non ci si riprende se non attraverso sforzi collettivi eccezionali e soprattutto attraverso le scelte giuste. Altrimenti, semplicemente, le città e i paesi muoiono.

Ha visto, caro Presidente, il sorriso riaffiorare su qualche volto degli abitanti di Onna. Perché dopo i troppi lutti e la sofferenza di cinque mesi di tenda, potranno avere un tetto nel piccolo villaggio di case di legno che sorge accanto al paese distrutto. Ha potuto capire, caro Presidente, che la speranza è nel poter riallacciare i fili spezzati con le persone e i luoghi. E' poter restare insieme e restare lì. Vicino alla tua casa rotta, o mezza rotta, smozzicata, scoperchiata, ma che è la tua casa. La speranza è di ricostruire la casa, la scuola, le strade e le piazze e di ritrovarsi insieme.

Ma sulla strada che dall'Aquila conduce ad Onna, caro Presidente, avrà visto anche il cantiere di Bazzano, dove si costruisce il più grande dei 19 nuovi insediamenti destinati ad ospitare chi ha perso la casa. E' il Piano C.A.S.E. (Comitati Antisismici Sostenibili Ecompatibili), voluto dalla istituzione Protezione Civile, previsto da un decreto legge dell'istituzione Governo, convertito in legge dall'istituzione Parlamento, approvato con il sostegno convinto dell'istituzione Regione Abruzzo e con l'avvallo delle istituzioni Provincia e Comune dell'Aquila. E questa è tutta un'altra storia. Ed è, purtroppo, quella vera che nulla ha a che vedere con la vicenda di Onna, è il suo contrario.

Il Piano era già pronto, ambizioso e innovativo: per la prima volta gli sfollati non sarebbero stati ridotti in roulotte o container ma, dopo qualche tempo in tenda, avrebbero avuto direttamente case vere, antisismiche, ecologiche e con tutti i comfort. Circa 5.000 abitazioni per circa 15.000 persone, che vi avrebbero abitato il tempo necessario a ricostruire la propria casa.

Così 30 mila persone sono state tenute in tenda per cinque mesi e altrettante, lontane negli alberghi della costa abruzzese, perché tutti, in autunno, avrebbero potuto avere un tetto: chi riparando i danni lievi della propria abitazione, chi trovando posto nelle nuove C.A.S.E.. Ma, caro Presidente, non è andata così. Non gliel'hanno detto?

Le tende hanno cominciato a toglierle davvero, solo che le case danneggiate non sono state riparate e le C.A.S.E., quando saranno tutte consegnate (dicembre? febbraio? aprile?), non basteranno. Per cui le persone dalle tende vengono trasportate in caserma o in albergo - la destinazione viene comunicata poco prima in modo da ridurre il rischio di rimostranze. Gli alberghi dell'aquilano sono pieni e quindi decine di migliaia di persone dovranno essere piazzate in altri territori e province. Chi ha la fortuna di avere ancora lavoro a L'Aquila o ha un figlio da mandare a scuola, potrà viaggiare con mezzi propri o autobus navetta, questi – pare – messi a disposizione dalle istituzioni. Gli altri staranno lì in attesa degli eventi.

Questa è la storia di una devastazione annunciata, caro Presidente. Lo smembramento delle comunità, praticato all'indomani del terremoto, viene proseguito dopo cinque mesi e perpetuato in quelli a venire. Perché non si è saputo e non si è voluto dare priorità alla ricostruzione ma alla costruzione del nuovo. E poi l'antico adagio resta valido: divide et impera. Se vuoi comandare sulle persone, tienile separate. Nei campi tenda, dove le persone per forza stanno insieme, è vietato distribuire volantini, è vietato riunirsi e discutere liberamente. I diritti e le libertà costituzionali, caro Presidente.

Con tutte le nostre forze, da subito, abbiamo chiesto alle istituzioni che venissero risparmiate sofferenze, denaro pubblico e le bellezze del territorio, ricorrendo a case di legno, prefabbricati e simili. Soluzioni rapide (4 settimane per averle pronte), economiche (un terzo di una C.A.S.A.), dignitose, sicure, che permettono di restare vicini nel proprio territorio da ricostruire e che possono essere rimosse quando non serviranno più. Ma non c'è stato nulla da fare. Le istituzioni non hanno voluto ascoltare.
Bisogna costruire le nuove C.A.S.E. 24 ore al giorno, spendendo tutti i soldi che ci sono davvero - oltre 700 mil. di euro - e usando pure quelli donati dagli italiani. Tirando su, in tutta fretta, insediamenti che saranno definitivi, dove capita, senza logica urbanistica, senza minimamente rispettare criteri di prossimità ai nuclei precedenti. Intanto, tutto il resto, con l'inverno alle porte, è fermo. Il riparabile non viene riparato, il centro storico resta immerso in un silenzio spettrale. Perché?

Che farebbe lei caro Presidente, se a cinque mesi dal terremoto non sapesse dove trovare una sistemazione per la sua famiglia, una scuola per i suoi figli, un lavoro che ha perso? Se non avesse la minima idea di come e quando potrà riparare la sua casa, ammesso che ne abbia ancora una? Molti, troppi, non hanno potuto fare altro che andare via. Accettare che, almeno per un po', a L'Aquila non è possibile tornare. Ma se non ora, dopo cinque mesi, quando? Lo spopolamento in atto, diventerà progressivo e definitivo se qualcosa di importante non cambierà e subito.
Tutto questo l'abbiamo denunciato, chiesto, urlato, ogni volta che abbiamo potuto e come abbiamo potuto. Di tutto questo nessuno le ha detto nulla? Perché nemmeno una perplessità, un dubbio nelle sue parole di ieri sulle scelte fatte?

Caro Presidente, ha ragione, noi ci crediamo davvero nelle istituzioni. Eppure si sbaglia, caro Presidente, perché di fiducia non ce n'è più. La supponenza, l'arroganza, l'ignoranza, la complicità, gli interessi inconfessabili, l'incapacità e l'inettitudine logorano la fiducia nelle istituzioni. Come pure il silenzio.

Comitato Rete-Aq, Campagna 100%,
Da Corriere della Sera del 13 - -09 - 2009

Scuola. Il futuro rubato

Marina Boscaino su l’AnteFatto del 13 - 09 - 2009

“Non rubateci il futuro” è il nome del coordinamento degli istituti che lo scorso anno ha animato nella capitale la protesta contro la scuola del trio Tremonti-Brunetta-Gelmini. A quell’epoca sarebbe ancora stato possibile interpretare quella frase come una sollecita esortazione a ritornare sui propri passi rispetto ad una serie di (allora) progetti di affossamento della scuola pubblica italiana. Oggi possiamo ben dire che il futuro ce lo hanno rubato.

Si tratta di una affermazione che non ammette replica. Ce lo hanno rubato nella maniera più brutale e volgare, non solo perché quei progetti sono diventati quasi tutti realtà: con le (contro)riforme di tutti i segmenti dell’istruzione; con il taglio di risorse economiche e culturali, conseguenze di una Finanziaria che già dall’ estate 2008 si annunciava come una scure ai danni dell’istruzione; con la privatizzazione della scuola, prevista nel progetto di legge Aprea; con i provvedimenti dell’acchiappafannulloni Brunetta. Ce lo hanno rubato perché il tutto è avvenuto in un clima di indifferenza generale, in cui – se non fosse per le sacrosante proteste dei precari, che ancora vengono seguite da TV e giornali, fino a che i riflettori dei media decideranno che il fenomeno è decantato e non fa più audience e si appassioneranno ad altre vicende – non un editorialista, non un politico ha ritenuto di dover dedicare un momento di riflessione, ad esempio, al fatto che i regolamenti delle scuole superiori prevedono il taglio del 10% dell’orario. Avete capito bene: il 10%. E’ un’enormità. Si tratta di un colpo alla cultura, alla democrazia, alla emancipazione – che si concretizzerà a partire dal prossimo anno scolastico – e che non significa solo taglio di cattedre (e, di conseguenza, allontanamento dal lavoro di donne e uomini, i famosi precari, appunto, che hanno contribuito in maniera significativa a far crescere la scuola italiana); ma anche taglio di sapere, di conoscenza, di esperienza culturalmente determinata e determinante per i nostri ragazzi. Significa andare a condizionare pesantemente la possibilità che gli studenti italiani alimentino le proprie capacità critico-analitiche. Significa – tra le tante altre cose – concretizzare un’idea di scuola e di cittadinanza che non prevede – che non deve prevedere – l’affinamento e il potenziamento di quelle capacità.

Un evento simile in un Paese realmente democratico e che avesse davvero le parole della nostra Costituzione impresse in modo indelebile nel proprio Dna avrebbe scatenato le reazioni più vibranti. Invece silenzio. Silenzio anche di una buona parte della società e della scuola stessa, che in molti provvedimenti del suddetto trio hanno trovato pane per la propria necessità di certezze, in un periodo di drammatica incertezza: maestro unico, voto numerico, 5 in condotta. Per poter credere che quelli sono i problemi, che quella è la realtà. È rassicurante, perché qualcuno sta lavorando, ha lavorato per risolverli. Creando però intanto una scuola incapace di licenziare cittadini che rivendichino l’esigibilità dei propri diritti e che bevano acriticamente ciò che viene (ironicamente?) chiamata “l’informazione”.

Gli altri, quelli che non ci stanno, quelli che non ci starebbero, sono soli. Orfani di qualsiasi rappresentanza politica, considerando il fatto che la scuola pubblica non costituisce più una priorità nell’agenda di nessuno. Privi di riferimenti, pieni di rabbia, di indignazione, si agitano come vespe sotto un bicchiere, confinati lì in parte dalla schiacciante maggioranza che chi ci governa ha in Parlamento; in parte dal balbettio isolato e imbarazzato di pochi rappresentanti dell’ “opposizione”, impacciati portavoce di una compagine che non ha da tempo un programma convincente sulla scuola pubblica. E che anzi da alcune parti plaude compostamente a certi provvedimenti governativi.

Il futuro ce lo hanno rubato, dunque. Lo hanno rubato al Paese. Lo hanno rubato ai bambini e ai ragazzi che si trovano in una scuola povera, demotivata, sempre più inadeguata a fornire risposte alla complessità e alla diversità del fuori; lo hanno rubato a coloro che oggi nelle piazze rivendicano – purtroppo inutilmente - la propria dimensione professionale e i diritti ad essa conseguenti; lo hanno rubato alle donne e agli uomini di “buona volontà”, che in un questo tempo ingrato e privo di passioni che non siano pulsioni effimere trovano ancora la forza e la voglia di esigere il bene della collettività. Le responsabilità è da ricercare in un generale disinvestimento - prima che economico, culturale – sulla scuola pubblica, anche quello davvero bipartsan. Che ciascuno ha gestito alla sua maniera, partendo dalla propria storia e dalle proprie convinzioni. Ma che è confluito ovunque in un neoliberismo sfrenato, che immobilizzerà in maniera definitiva le differenze di classe. A pagare, come sempre, saranno i “meno”: i meno vecchi; i meno fortunati. Ma, prima di tutto, i meno abbienti: coloro che paradossalmente più degli altri vedevano in una scuola pubblica laica, pluralista, di qualità, la propria principale speranza per il futuro. A loro il futuro è stato scippato violentemente.

Escort e veleni, sullìitalia incubo del cordone diplomatico

Escort e veleni, sullìitalia incubo del cordone diplomatico

Umberto De Giovannangeli sull'Unita' de 13 - 09 - 2009
Lo spettro del cordone diplomatico prende forma dai sempre più allarmati rapporti che dalle ambasciate italiane in Europa arrivano sul tavolo del ministro degli Esteri, Franco Frattini. Lo spettro si manifesta nei report, altrettanto preoccupati, che dall’ambasciata americana a Roma giungono al Dipartimento di Stato Usa.

La tesi del complotto della stampa straniera ordito contro il Cavaliere scomodo non regge più. L’imbarazzo dei leader europei, come della Casa Bianca, si sta trasformando in qualcosa di ben più pesante: nell’isolamento di un alleato improponibile, nella marginalizzazione dell’Italia dagli incarichi (Ue) che contano e dalle partite più impegnative che si giocano sullo scacchiere internazionale (dall’Afghanistan all’Iran, al Medio Oriente). Non è più solo una questione di poltrone. Il «cordone diplomatico» è anche altro: è centellinare informazioni delicate ad un alleato-premier la cui affidabilità mostra pesanti crepe.

Lo spettro del «cordone diplomatico» è legato ad un concetto che si fa sempre più strada negli ambienti diplomatici europei: la ricattabilità di Silvio Berlusconi. Annotava nei giorni scorsi il Times: «Alcune delle ragazze (coinvolte nello scandalo delle escort, ndr) vengono dall’Europa dell’Est. Cosa succederebbe se una potenza straniera decidesse di sfruttare questa vicenda pacchiana? Non è solo la preoccupazione di Roma, l’Italia è anche un importante partner occidentale della Nato, nei Balcani e in Afghanistan. Le buffonate del premier preoccupano e imbarazzano tutti gli amici del suo Paese».

Quello del quotidiano londinese è un articolo bene informato. Che raccoglie umori dominanti non solo a Downing Street o al Foreign Office ma anche in altre capitali europee: certo a Berlino, a Parigi, Madrid. La prima traduzione concreta di questo «cordone diplomatico» si è già manifestata. Il Times fa riferimento all’Afghanistan. Non a caso. Ebbene, l’Italia è stata esclusa dall’iniziativa di Gran Bretagna, Germania e Francia che insieme hanno chiesto formalmente al segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki Moon di indire una conferenza internazionale per rilanciare l’azione internazionale in quel Paese. Quell’esclusione è uno smacco per l’Italia, tanto più se rapportato al nostro impegno militare sul fronte afghano.

Un segnale. Un avvertimento. Tanto più significativo, dice all’Unità una fonte diplomatica a Bruxelles, perché due dei tre «congiurati», il presidente francese Nicolas Sarkozy e la cancelliera tedesca Angela Merkel, erano stati recentemente annoverati dal Cavaliere tra i suoi «amici internazionali» più cari e affidabili. E ancor prima, ricorda la fonte, c’era stato il «niet» alla richiesta italiana, reiterata da Berlusconi e Frattini, di entrare a far parte del Gruppo 5+1 (Stati Uniti, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania) che gestisce il dossier nucleare iraniano. Il «cordone diplomatico» è in atto. E può prendere forme da incubo: bilaterali rinviati, o annullati, per improvvisi forfait dei partner, informazioni centellinate.

Il Cavaliere reagisce agli articoli della stampa estera scatenando la «guerra delle querele». Che rischia di essere per lui un campo minato. Le sue denunce, avverte il Wall Street Journal, «potranno trattenere alcuni giornali da criticare Berlusconi per le sue storie con giovani donne, ma potrebbero spingere la stampa internazionale a occuparsi maggiormente di questioni che possono ben più danneggiare la sua reputazione, come le sue relazioni con Tripoli e Teheran, gli effetti del suo nazionalismo economico». Amicizie e affari pericolosi, lascia intendere il più importante quotidiano finanziario al mondo. L’imbarazzo è il passato. Il presente-futuro è l’isolamento internazionale.

Crescono le disparità, 2 italiani su 3 si sentono poveri Presentato a Milano il Rapporto annuale della Coop. Basterebbe il 2% per riequilibrare.

La recessione ha colpito duramente l'economia italiana e nel pieno della crisi, spicca il comportamento degli italiani: più formiche che cicale. Sebbene i redditi reali delle famiglie (-0,4% sul 2008) siano calati nel primo semestre meno del Pil (-5,9%) i consumi sono diminuiti del - 2,6%.
Si consuma di meno, quindi, tagliando il superfluo e ricercando l'efficienza nella spesa (comprando se possibile in promozione). La maggior parte degli italiani pensa a un'uscita dalla crisi non breve (oltre il 57% ne intravede l'epilogo non prima di un paio di anni), per più di un italiano su 3 il risparmio resterà anche nel prossimo futuro una priorità, mentre nel Paese crescono le disuguaglianze.



Il 66% degli italiani si sente povero

Il 66% si sente povero e un quinto fa fatica fare la spesa alimentare e a pagare le cure mediche, ma d'altra parte poco meno della metà della ricchezza finanziaria del nostro Paese si concentra nelle mani di un 10% di italiani.
Sono queste alcune delle conclusioni del Rapporto Coop 2009 “Consumi e distribuzione” presentato oggi a Milano.
Il Rapporto è stato redatto dall'Ufficio Studi di Ancc-Coop (Associazione Nazionale Cooperative di Consumatori) con la collaborazione scientifica di ref. (Ricerche per l'Economia e la Finanza) e contributi originali di Nielsen, Iri-Infoscan e Demos.
Secondo Coop “In questo frangente di crisi noi abbiamo fatto la nostra parte, mettendoci a fianco dei consumatori e penalizzando anche la nostra redditività commerciale.


Una strategia per ridurre le distanze sociali

Se è vero che il consumatore italiano dimostra di imparare a convivere con la crisi, è altrettanto vero che dalla crisi si deve uscire con una strategia che punti a attenuare le distanze sociali presenti nel Paese (ricchi vs poveri, nord vd sud, uomini vs donne, giovani vs anziani).
A questo proposito basti dire che per fare superare la soglia di povertà alle famiglie più povere basterebbe meno del 2% del reddito del 10% di italiani più ricchi. E questo oltre a far migliorare le condizioni di vita di ben 8 milioni di persone avrebbe un effetto positivo di quasi 4 miliardi di euro di maggiori consumi. Impatti allo stesso modo significativi si potrebbero ottenere se si riequilibrasse il mercato del lavoro a favore dei giovani e delle donne.
Infine, secondo il Rapporto di Coop, “Strumento indispensabile per generare benefici effetti sui consumi è la ripresa delle liberalizzazioni”.

Da il Savagente del 12-09-2009

giovedì 20 agosto 2009

MARCELLO DELL'UTRI. UNA VITA AL SERVIZIO DELLA MAFIA.

DA ANTIMAFIA 2000.

Nella lunga requisitoria al processo di Palermo i pm chiedono 11 anni per il senatore forzista
di Giorgio Bongiovanni e Monica Centofante

Lo scorso 8 giugno, dopo ben 16 udienze, i pm Antonio Ingroia e Domenico Gozzo hanno terminato la loro lunga requisitoria. A coronamento di un lavoro processuale <>, hanno detto, durato quasi 6 anni e 211 udienze nel corso delle quali sono state ascoltate 270 persone, fra testimoni, imputati di reati connessi e collegati.
E che ha portato alla richiesta, rivolta al presidente della seconda sezione del Tribunale di Palermo Leonardo Guarnotta – giudici a latere Giuseppe Sgadari e Gabriella Di Marco – di condannare Marcello Dell’Utri a 11 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa e Gaetano Cinà, suo coimputato, prima uomo d’onore della famiglia di Malaspina e successivamente “posato” a 9 anni per partecipazione ad associazione mafiosa.
Alla base delle richieste una mole di prove tanto imponente che <>: intercettazioni antiche e recenti, analisi di traffici telefonici, indagini di tipo tradizionale, acquisizioni documentali, consulenze finanziarie, risultanze filmate e fotografiche, dichiarazioni di protagonisti come Ezio Cartotto o Filippo Alberto Rapisarda e in taluni casi ammissioni dello stesso Dell’Utri.
Tutti fatti che hanno abbracciato un arco temporale di 30 anni, a partire dal 1970. Fatti per i quali, sostiene il pm Ingroia, si potrebbe persino chiedere <> e che i collaboratori di giustizia hanno avuto “soltanto” il compito di spiegare, fornendo la necessaria chiave di lettura interna a Cosa Nostra. Niente teoremi di pentiti, come certa stampa ha più volte sentenziato quindi, niente attacchi provenienti da fantomatiche “toghe rosse”, ma prove, che risalgono <>.
Quelle prove che tenteremo di riassumere, nelle pagine che seguono, elencando solo quei fatti che i pm ritengono ormai ampiamente dimostrati.
E che potrebbero portare ad una effettiva condanna del senatore Marcello Dell’Utri, nonostante la storia ci abbia finora dimostrato come sui processi politici sia possibile dire tutto e il contrario di tutto. E’ per questo che ci associamo al giudice Antonio Ingroia che nella sua richiesta di condanna ai giudici ha ricordato come <>, e come sia necessario <>, fare in modo <>.
<<”I have a dream” è una celebre frase di Martin Luther King, il profeta dell’uguaglianza. Ebbene, anche il Pubblico Ministero ha un sogno: quello che anche la legge penale venga applicata secondo il principio di eguaglianza, che tutti i cittadini siano eguali davanti alla legge penale>>.

L’inizio della carriera
Partono dal 1974 le indagini dei pm Ingroia e Gozzo tese a dimostrare i rapporti fra l’odierno senatore Marcello Dell’Utri e l’organizzazione mafiosa Cosa Nostra.
Dall’anno in cui nella villa di Arcore, appartenente all’imprenditore Silvio Berlusconi, si registrano due nuove assunzioni. Quella di Dell’Utri, amico e segretario particolare del proprietario, e quella di Vittorio Mangano, uomo d’onore della famiglia di Porta Nuova, al tempo capeggiata da Pippo Calò.
Personaggio già noto negli ambienti giudiziari per via di una serie di denunce, arresti, processi e condanne, Mangano viene ingaggiato, in quel periodo, proprio da Dell’Utri per rivestire ufficialmente l’incarico di fattore e stalliere. In realtà, racconterà il pentito Francesco Di Carlo, ex boss della famiglia di Altofonte, la sua reale funzione sarà quella di svolgere, unitamente al Dell’Utri e a Gaetano Cinà (uomo d’onore posato della famiglia di Malaspina), la funzione di <>. Minaccia incombente sulla testa dell’imprenditore, che in quegli anni riceve numerose intimidazioni e che per evitare il problema accetta di stipulare quello che la procura definisce un vero e proprio <>. A suggellarlo un incontro diretto e personale, organizzato da Dell’Utri, fra Berlusconi e i capi dell’organizzazione mafiosa di allora: Stefano Bontate e Mimmo Teresi, della famiglia di Santa Maria del Gesù, e Francesco Di Carlo, della famiglia di Altofonte. Testimone oculare, quest’ultimo, di quell’incontro, nel quale si definì l’inserimento di un mafioso di primo piano negli ambienti imprenditoriali milanesi. E a partire dal quale Silvio Berlusconi, affermano i pm, è nelle mani di Cosa Nostra.
Una denuncia alla quale i due politici di Forza Italia hanno sempre risposto con un <>. <>, sono le loro parole, <>.
A testimoniare la reale durata della permanenza del boss nella villa milanese c’è però un rapporto della questura di Milano. Il fattore, si legge, lascia la villa <>.
All’incirca due anni dopo il suo arrivo.
E sono due anni, spiegano i giudici, nei quali succede di tutto e di più.
Ma perché Berlusconi e Del’Utri mentono sulla data dell’allontanamento dello stalliere da Arcore ed era vero che potevano disconoscere la sua reale identità criminale?
Il 7 dicembre del 1974 l’Anonima Sequestri rapisce Luigi D’Angerio, amico di Berlusconi, all’uscita dalla villa di Arcore dove aveva preso parte ad una cena. I sospetti degli inquirenti ricadono su Mangano, ma Berlusconi non ritiene necessario allontanare lo stalliere;
il 27 dicembre dello stesso anno i carabinieri arrestano Mangano con l’accusa di truffa. Una volta scarcerato fa il suo ritorno ad Arcore;
il 18 maggio del 1975 esplode una bomba in via Rovani, contro la sede milanese della Fininvest. Berlusconi e Dell’Utri pensano subito a Mangano e lo rivelano nel corso di una telefonata del 1986, che sarà intercettata nell’ambito delle indagini per il fallimento della Bresciano Costruzioni;
il 1° dicembre del 1975 i carabinieri di Milano arrestano nuovamente Mangano per porto abusivo di coltello e scoprono che deve scontare anche una condanna per ricettazione. Anche questa volta, uscito dal carcere, il mafioso ritorna ad Arcore.
Nel frattempo, all’interno della villa, si registrano continui e misteriosi furti di quadri e, secondo le dichiarazioni di diversi e accreditati collaboratori di giustizia, tra cui Salvatore Cancemi, molti sono i mafiosi che si rifugiano tra quelle mura. Vittorio Mangano, è il suo racconto, <>, <>, <>.
A confermare le sue dichiarazioni Giuseppe Contorno e i fratelli Antonino e Gaetano Grado. Quello stesso Grado che Antonino Calderone, collaboratore catanese, vide <> Dell’Utri, al ristorante “Le colline pistoiesi”, in occasione di un incontro organizzato per festeggiare il compleanno del Calderone stesso. Quello stesso Grado, continua il pentito, che era tra gli organizzatori di un sequestro mai avvenuto del piccolo Piersilvio Berlusconi.
E il Cavaliere “qualcosa” doveva sapere, riflettono i pm, dal momento che il bambino, con il resto della famiglia, venne trasferito per un periodo in Spagna per stare al sicuro.
Ma se tali fatti, ancora oggi, non sembrano rivestire particolare gravità per Dell’Utri e Berlusconi non fu così per la stampa di allora. <>. Una cosa, spiega, che avrebbe potuto offuscare l’immagine dell’imprenditore, e così <>.
Il suo allontanamento da Arcore implicherà anche l’allontanamento di Marcello Dell’Utri.
Scaduto il contratto di assicurazione con Mangano anche l’agente assicurativo viene mandato via. E nonostante il senatore forzista tenti di distanziare l’allontanamento del boss dal proprio, chiarisce Domenico Gozzo, è in quello stesso periodo, alla fine del 1976, che Dell’Utri chiede una promozione all’amico Silvio, ma viene cacciato.
<> gli dice l’imprenditore, già oppresso come testimonieranno le indagini, da una situazione che si fa sempre più pesante e che i periodici versamenti fatti dalla Fininvest a Cosa Nostra – tramite Dell’Utri e Cinà – non sembrano calmare.
Dal canto suo Dell’Utri confermerà che la motivazione del suo licenziamento fu quella e alla signora Bresciano, moglie del titolare della Bresciano Costruzioni ammetterà: <>.
Sette anni più tardi, però, Dell’Utri rientrerà nel gruppo Fininvest. E ci rientrerà dalla porta principale, come dirigente di una delle società più importanti del gruppo.
Che cosa succede in quei sette anni? Perché Berlusconi decide di richiamare Dell’Utri con così tanti onori?
Per riuscire a rispondere a questa domanda, prosegue Gozzo, <>.

Il business delle antenne
In quegli anni, tra il 1977 e il 1983, l’imprenditore Silvio Berlusconi getta le basi di quello che diventerà uno dei più grandi imperi finanziari del nostro Paese. A seguito dell’approvazione di una legge che permette ai privati l’acquisto di reti televisive su scala regionale – dando il via alla televisione commerciale italiana – l’imprenditore si accaparra diverse emittenti in tutta Italia. E tramite la cosiddetta cassettizzazione trasmette contemporaneamente uno stesso programma su tutto il territorio nazionale. In Sicilia le antenne che entrano a far parte del gruppo Berlusconi sono tre: Rete Sicilia srl, Trinacria TV e Sicilia Televisiva, che trasmetteranno, nell’ordine i programmi di Canale5, Italia1 e Rete4. E che in seguito all’approvazione della legge Mammì, nel 1991, verranno fuse in queste tre ultime società.
Ad interessarsi per l’acquisizione di tali frequenze, racconta Francesco Di Carlo, è anche la mafia, contattata dall’imprenditore tramite Dell’Utri il quale interessa Gaetano “Tanino” Cinà.
<>, poi <>, <>.
Pm: Lei ha parlato di un’unica soluzione?
<>. Perché <>.
La costituzione della Rete Sicilia srl risale al 21 dicembre del 1979. Alla presidenza del consiglio di amministrazione c’è Antonino Inzaranto, imprenditore di Termini Imerese, cognato della nipote di Tommaso Buscetta che, nel 1980 era ancora importante uomo d’onore di Cosa Nostra.
<>. Unico ruolo: ricercare i siti per l’installazione delle antenne e firmare il bilancio.
Discorso simile per le altre due emittenti.
Trinacria TV è <>; è <>; conta tra i componenti della sua compagine sociale diversi soggetti in contatto con altri elementi della criminalità organizzata e tra questi Enrico Arnulfo, già sindaco di una società appartenente e facente capo al faccendiere Flavio Carboni e di altra società legata a Salvatore Buscemi, Franceco Bonura e Salvatore Sbeglia.
Sicilia Televisiva, infine, è avviata da Filippo e Vincenzo Rappa, <>.

Tutte le holding
del Presidente
Nello stesso periodo, e precisamente tra il 1975 e il 1983, 113 miliardi di lire di provenienza sconosciuta affluiscono nelle 22 holding Fininvest, che diventeranno poi 37.
I misteriosi introiti finanziari, ricostruisce il pm Gozzo rifacendosi alla deposizione del consulente tecnico dell’accusa Francesco Giuffrida (funzionario della Banca d’Italia), sono da ordinare in tre gruppi essenziali. Dei quali <>.
La Finanziaria di investimento Fininvest, che alla data della sua costituzione, nel marzo del 1975, disponeva di un capitale di 2 miliardi di lire interamente versato, ha già effettuato alla data dell’incorporazione alcune operazioni di aumento di capitale e di sottoscrizione di prestiti obbligazionari fino ad un importo che avrebbe dovuto portare il capitale sociale, una volta sottoscritto, a 30 miliardi di lire il 2 dicembre del ’77.
Anche Fininvest Roma, aggiunge il pm, viene articolata in 25 holding, le quali effettuano aumento di capitale nei limiti di due miliardi di lire in modo tale da non dovere richiedere alcuna autorizzazione al Ministero del Tesoro.
<>, incalza Gozzo nel corso di una delle udienze, in risposta alle considerazioni del consulente tecnico della difesa, dottor Paolo Jovenitti, che “non riterrà opportuno” analizzare questi dati.
E in particolare, riprende il pm, se si considera che parte delle somme viene versata addirittura in contanti. Tanto che all’appello della consulenza tecnica effettuata dal dottor Giuffrida, consulente dell’accusa, mancherebbe l’origine di 16 miliardi e mezzo di lire versati nel 1977 alla Fininvest, appunto, in contanti e in modo frazionato in diversi giorni successivi.
Oltre a questa, tante sono le manovre finanziare non ricostruibili per l’assenza di documenti contabili nelle varie filiali bancarie anche perché molti sono i casi, ricostruisce l’accusa, in cui le operazioni delle holding venivano inserite dagli istituti bancari come “servizi per parrucchieria”, cosa che permetteva loro, come spiegato in udienza da Giuffrida, di <>.
Per non parlare dei vari prestanome e delle cosiddette società <> quali le già citate Ponte e Palina, che nei loro pochi mesi di vita sono state utilizzate esclusivamente per compiere giro conti illogici dal punto di vista bancario, poiché il denaro transitava, nello stesso giorno e per pari importo, in più società dello stesso gruppo per poi ritornare al punto di partenza. Giroconti, sottolinea Gozzo, dell’ammontare di miliardi.
E mentre Jovenitti parla di modello di gestione aziendale <> il pm tuona: <>, e ricorda ai giudici come il professore, nel corso della sua deposizione dibattimentale, aveva tra le altre cose dimostrato di non conoscere i contenuti della consulenza tecnica effettuata in precedenza da Giuffrida e di non essere super partes. Fu lui, infatti, il consulente del Cavaliere al processo milanese sui terreni di Macherio. La sua giustificazione: <>. Strano, incalza, Gozzo, poiché <> e <>. Poi conclude: <>.
Alla fine, però, Jovenitti è costretto ad ammettere. Certe operazioni, dice, erano <> e Berlusconi <>. <>.
Ma perché?
Perché a quasi trent’anni di distanza da quei flussi, ora che gli eventuali reati finanziari e fiscali sono ormai prescritti non c’è trasparenza sui capitali iniziali della Fininvest e nemmeno sui soci di Berlusconi. Che cosa si vuole coprire?
Alla domanda potrebbero rispondere il pentito Francesco Di Carlo e il finanziere Filippo Alberto Rapisarda, i quali avevano riferito sui finanziamenti della mafia, e precisamente di Bontate, alla base dell’ascesa imprenditoriale di Berlusconi.
Oppure i risultati delle indagini condotte a Palermo contro gli stessi Dell’Utri e Berlusconi, indagati per riciclaggio in concorso con i boss Stefano Bontate e Mimmo Teresi. In quell’occasione vennero sequestrati libri soci e libri giornale delle società Fininvest e si scoprì che l’imprenditore aveva omesso di dichiarare, tra le altre cose, che quote rilevanti di alcune di queste erano intestate alla società Par.Ma.Fid. spa che in quel periodo gestiva i beni di Antonio Virgilio. Il quale sembrava riciclare capitali per conto dei clan di Giuseppe e Alfredo Bono, Salvatore Enea, Gaetano Fidanzati, Gaetano Carollo, Carmelo Gaeta e altri boss che gestivano a Milano il traffico internazionale di stupefacenti e i sequestri di persona. In quel periodo Virgilio ed Enea intrattenevano rapporti con Dell’Utri e solo il Virgilio con lo stalliere di Arcore Vittorio Mangano. Il Virgilio, inoltre, era intestatario di conti correnti presso la Banca Rasini, definita dalla Procura di Milano crocevia degli interessi di Cosa Nostra negli anni Sessanta e Settanta e il cui direttore generale, Antonio Vecchione, subentrato a Luigi Berlusconi, venne arrestato nell’ambito di un’operazione contro boss e colletti bianchi.
La prova dei passaggi diretti di quei soldi da soggetti mafiosi al gruppo Fininvest non esiste, osserva infine Gozzo, però è vero <>.
Tra queste, da non sottovalutare quella di Tullio Cannella, il quale riferì che Giacomo Vitale, cognato del Bontate, era intenzionato a recuperare i soldi del boss in seguito alla sua uccisione avvenuta nel 1981 nel corso della guerra di mafia che portò i corleonesi alla leadership di Cosa Nostra. Quegli stessi soldi che tramite la P2 sarebbero finiti in gruppi finanziari imprenditoriali del centro nord.
<>. <>.

Massoneria
e speculazione edilizia
Certo è invece che in quegli stessi anni, più precisamente nel medesimo periodo in cui Dell’Utri va via da Arcore, anche Berlusconi si iscrive alla massoneria. Lo si evince ancora dagli atti, in particolare quelli della cosiddetta Commissione P2 presieduta dall’on. Tina Anselmi, che riporta le dichiarazioni rese dallo stesso Berlusconi all’autorità giudiziaria milanese il 26 ottobre del 1981. L’anno in cui scoppia il caso P2. <>.
Un approccio di convenienza che ha un suo sbocco, se pensiamo che il gruppo Fininvest, grazie a dirigenti piduisti di varie banche fra cui il Monte dei Paschi di Siena (oggetto anche della consulenza tecnica del dottor Giuffrida) e la BNL otterrà fidi spropositati.
Legato a queste banche il piduista Licio Gelli, in rapporti con Flavio Carboni a sua volta in contatto con Cosa Nostra.
Curioso il fatto che in quegli anni la massoneria gioca un ruolo centrale non solo per Berlusconi, ma anche per la mafia di Bontate.
Il quale, fin dagli anni Settanta, sottolineano i pm <>, tramite l’inserimento di alcuni soggetti - due per famiglia ci dice Calderone – nelle logge deviate. Tra questi Benedetto Santapaola (lo rivela il pentito catanese Maurizio Avola), il fratello del Calderone, Totò Greco, Bontate e Giacomo Vitale. Quet’ultimo, spiega invece Gioacchino Pennino, <>, e aveva avuto rapporti con Licio Gelli, <>. <>.
L’intenzione di Bontate, sono le parole di Francesco Di Carlo, era quella di <>.
D’accordo il Vitale che a Gaspare Mutolo dichiara: <>.
Ed <>. Quella grande speculazione edilizia denominata “Olbia 2” che vede il Cavaliere e Cosa Nostra in “rapporti d’affari” tramite un unico intermediario: Flavio Carboni, <>. Il quale, spiega l’ispettore dello Sco Tiano, investiva in Sardegna i proventi del traffico di stupefacenti (vedi Pizza Connection e San Valentino) in qualità di tramite di Pippo Calò.
Degli interessi del Calò nell’isola hanno testimoniato numerosi collaboratori di giustizia tra cui Gaspare Mutolo, Francesco Di Carlo, Tommaso Buscetta, Francesco Scrima, Emanuele Di Filippo, Salvatore Cancemi, Salvatore Cucuzza (apprese degli interessi in Sardegna dallo stesso Calò), Angelo Siino. Ai quali si aggiunge Antonio Mancini, collaboratore proveniente dalla Banda romana.
L’affare Olbia2, spiega ancora Gozzo, consiste nell’acquisto, da parte di Berlusconi, di terreni venduti proprio dal faccendiere Flavio Carboni, che sarà successivamente coinvolto nella fuga e nella misteriosa morte di Roberto Calvi a Londra.
Tali terreni vengono passati a 12 società, le cosiddette “dodici sorelle”, delle quali 4 faranno capo a Berlusconi, 4 ai prestanome di Pippo Calò, 4 a Carboni.
Il 27 agosto del 1982, interrogato dal pm Dell’Osso, a Milano, il Cavaliere confermerà i suoi rapporti con Carboni dichiarando che l’unica possibilità di insediamento sull’isola <>. L’acquisto dei terreni, continua, è stato <>.
Un’operazione estremamente pericolosa per l’immagine massmediatica del Cavaliere, già al centro di non poche polemiche per i suoi passati rapporti con Mangano, per l’iscrizione alla P2 e, ora, per il suo ampio coinvolgimento con il Carboni, soggetto certamente in rapporti con Cosa Nostra e con la Banda della Magliana.
<>.
E’quindi questo il motivo per cui Berlusconi, nel 1983, affidò a Dell’Utri Publitalia, la cassaforte delle televisioni del gruppo Fininvest, quella senza la quale, come hanno riferito molti testi, l’avventura televisiva berlusconiana non sarebbe stata possibile?

Il ritorno a casa Arcore
Di sicuro, lo abbiamo già visto, non sono le doti imprenditoriali dell’imputato a far cambiare idea al Cavaliere.
Durante gli anni della sua lontananza da Arcore e <>, Dell’Utri, trova impiego in un altro gruppo imprenditoriale, la Bresciano Costruzioni, all’interno del quale svolgerà la medesima funzione di rappresentanza degli interessi mafiosi che aveva svolto ad Arcore, ma che egli stesso porterà al fallimento. Bancarotta fraudolenta, si legge negli atti riferiti alla Bresciano, appartenente al costruttore e finanziere siciliano Filippo Alberto Rapisarda. Anch’egli noto agli inquirenti per i suoi rapporti di amicizia con Vito Ciancimino e il clan Cuntrera-Caruana, al quale chiederà asilo quando le indagini sulla bancarotta colpiranno lui e Dell’Utri. Nel 1980 incriminato a piede libero e sottoposto a indagini da parte della Criminalpol di Milano, che intercetta una sua telefonata con Mangano nella quale si fa riferimento all’affare di un <> che fa per lui e per il quale occorrono <> che lui non ha. Fatteli dare dal tuo amico Berlusconi è il commento di Mangano, ma quello, risponde Dell’Utri <<’n sura>> (non suda = non sgancia).
Nell’ultima intervista rilasciata prima della sua morte, il giudice Paolo Borsellino farà riferimento proprio a questa intercettazione, spiegando che era accertato dal maxiprocesso, che quando Mangano parlava di cavalli intendeva riferirsi a partite di droga.
E sempre di droga si parla quando Marcello Dell’Utri, ancora nel 1980, partecipa alle nozze a Londra di Jimmy Fauci, trafficante per conto dei Caruana, che si muove fra l’Italia, la Gran Bretagna e il Canada. Alla festa, alla quale prendono parte tra gli altri Francesco Di Carlo e Mimmo Teresi, Dell’Utri dichiarerà di essere capitato per caso: <>.
E’ questo il Marcello Dell’Utri che nel 1983 fa il suo ritorno trionfale ad Arcore.
All’indomani della sanguinosa guerra di mafia che vede l’affermarsi di una nuova leadership, quella dei corleonesi Riina e Provenzano, che si pongono ai vertici di Cosa Nostra dopo aver ucciso i boss Bontate, Teresi e Inzerillo.
Al suo rientro Dell’Utri è chiamato subito a ristabilire la quiete in un clima di grande tensione.
In sua assenza, infatti, i Pullarà – reggenti della famiglia di Santa Maria del Gesù dopo la morte di Bontate – avevano ereditato quel rapporto privilegiato con l’imprenditore. Mutando, però, quella relazione di impresa amica che aveva caratterizzato il rapporto mafia-gruppo Berlusconi negli anni Settanta. I Pullarà, evidenziano i collaboratori di giustizia – tra cui Calogero Ganci, Francesco Paolo Anzelmo, Antonino Galliano, Salvatore Cucuzza, Francesco Scrima, Vincenzo La Piana, Angelo Siino – erano estremamente onerosi e violenti nelle loro pretese. <> (lasciarlo in mutande ndr.), è la spiegazione di Siino, alla quale si aggiunge quella di Ganci e Anzelmo: il Cavaliere si sentiva <>, che <>.
E mentre in carcere i membri della famiglia Pullarà si scontrano duramente con Mangano (arrestato per mafia e droga nel 1983 da Falcone e Borsellino) proprio per avere l’esclusiva di quel contatto Dell’Utri si rivolge all’amico Cinà nel tentativo di ristabilire quel rapporto di impresa amica.
E’ quest’ultimo a farsi portavoce delle sue richieste presso Pippo di Napoli e quindi Ganci e Riina.
Che sulle prime si infuria perché i Pullarà, racconta Galliano, <> e poi decide di “mettersi nelle mani” personalmente Dell’Utri, per il tramite di Cinà e di Napoli continuando, però, a corrispondere ai Pullarà e alla famiglia di Santa Maria del Gesù una parte della somma versata dall’imprenditore.
Secondo quanto dichiarato da Francesco Paolo Anzelmo, poi confermato da Calogero Ganci, Salvatore Cancemi e altri la cifra <>. (<> aggiunge Galliano) Sul tramite: <
  • >.
    Ma perché Riina decide di subentrare direttamente in quel rapporto?
    Il motivo, è la spiegazione di Gozzo, non è sicuramente legato alla riscossione dei soldi, ma a una complessa strategia politica che prevedeva l’abbandono dell’ormai titubante Scudo Crociato per agganciare il Psi. La volontà dell’associazione, come emergerà da decine di indagini, era addirittura quella di arrivare ai vertici del partito e, quindi, a Bettino Craxi che era allora Presidente del Consiglio.
    Per raggiungere i propri scopi, quindi, e <>, spiegano Anzelmo e Galliano – il primo per averlo appreso da Mimmo Ganci - l’organizzazione mafiosa riprende con la strategia degli attentati e delle minacce che aveva caratterizzato gli anni Settanta con Mangano.
    E come con Mangano riparte da via Rovani.

    Quelle pesanti
    intercettazioni
    E’ sicuramente la prova più importante e significativa presentata dai pm nel corso del processo.
    Una serie di sei telefonate, intercettate nel 1986 in casa Dell’Utri dalla procura di Milano nell’ambito del procedimento per il fallimento della Bresciano Costruzioni.
    Nelle prime tre l’imputato parla con l’amico Silvio, nelle altre con Tanino Cinà.
    Il tema delle conversazioni è l’attentato mafioso del 28 novembre del 1986 alla sede Fininvest di via Rovani 2 sul quale il Cavaliere non ha dubbi. <>, esordisce nella prima delle sei telefonate e al suo interlocutore, l’amico Marcello, spiega: <>. Della medesima opinione del Cavaliere Fedele Confalonieri, presente ad Arcore al momento dello scoppio.
    Questa certezza, però, risulterà infondata il giorno successivo quando Dell’Utri, a seguito di una conversazione intrattenuta con il Cinà, telefona nuovamente a Silvio. <> che possa trattarsi di Mangano.
    Berlusconi non ha bisogno di ulteriori spiegazioni.E dal tenore della conversazione appare evidente che non solo conosce il Tanino di cui gli parla Dell’Utri, ma gli attribuisce, così come il Dell’Utri stesso, una forte competenza in fatti di mafia.
    Si rasserena poi completamente quando l’amico Marcello aggiunge: <>, <>.
    Affermazione, osservano i pm, <> e che conferma le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia in merito al progetto mafioso di avvicinare Cinà a Dell’Utri e Berlusconi.
    Dichiarazioni che riguardano anche le successive minacce.
    <>. Una conferma arriva anche dall’Anzelmo che aggiunge: <>.

    Le regalie
    alla mafia
    E per sgombrare ulteriormente il campo dal dubbio che quello tra Dell’Utri, Berlusconi e Cinà potesse essere un rapporto tra estortore ed estorti i pm fanno ascoltare in aula quella che definiscono <>. Una telefonata nel corso della quale Cinà parla di una cassata spedita a Dell’Utri e di un’altra, del peso di 11 chili e 800 grammi, che intende inviare al Cavaliere e sulla quale, dice, ho fatto scrivere <>.
    E <>.
    Sul punto, alle dichiarazioni <> rese in tutti questi anni dai collaboratori di giustizia e allo sconcertante contenuto delle intercettazioni appena descritte si aggiunge anche una prova documentale.
    Il libro mastro della famiglia di San Lorenzo, fatto ritrovare da Giovambattista Ferrante presso le case Ferreri, che dimostra non solo il pagamento dei soldi da parte della Fininvest a Cosa Nostra, ma anche che quelle somme erano versate a titolo di donazione.
    A tenere il libro mastro, ha spiegato il pentito, era Salvatore Biondo “il lungo” che aveva il compito di gestire le estorsioni e che sarebbe successivamente diventato reggente della famiglia di San Lorenzo. Tale “registro del racket” era costituito da due agende <>.
    Da una parte si legge: “Can.5 n. 8”, dall’altra, al n. 8 “Regalo 990/5mila”. Spiegazione di Ferrante: Canale 5 pagò, nel 1990, 5 milioni a Cosa Nostra. In merito alla dicitura regalo: <>. Altre ditte facevano regali di questo genere? <>. Poi continua: <>. E conclude: <>.
    Altri collaboratori, però, allungheranno questo periodo. Tra questi Salvatore Cancemi, anch’egli testimone oculare della consegna di quelle somme, che dice di avere visto <>, che provenivano <> almeno sino al 1993, mentre Giusto di Natale parlerà della metà degli anni 90.
    Queste agende, sottolinea il pm, presentate in altro processo hanno portato alla condanna definitiva di una cinquantina di uomini d’onore.

    Gli anni
    della transizione
    Nel 1987 si tengono le elezioni politiche. Per la prima volta nella sua storia Cosa Nostra appoggia, nella persona dell’on. Martelli, un solo partito, il Psi, <>.
    A raccontarcelo decine di pentiti che parlano di un ordine <> di votare per i socialisti. <>. Notevoli malumori si registrano infatti all’interno dell’associazione mafiosa e perfino ai vertici, aggiunge Giuffré, poiché <>.
    Contrarietà che si dimostra fondata, visto il risultato non soddisfacente raggiunto dal Psi, in seguito al quale, però, la mafia non molla.
    Al contrario, ritorna alla carica con Berlusconi e gli rivolge nuove minacce.
    E’ il 1988 quando il Cavaliere, in un colloquio intercettato dagli inquirenti, si confida con l’amico immobiliarista Renato della Valle. <>, <>.
    Ma quei “casini” non sono destinati a finire.
    In quegli anni di transizione che attraversa il nostro Paese, riprende Ingroia, <>, e che attraversa il mondo intero <> sempre più forti sono le ripercussioni che si determinano nell’universo mafioso. <>. E ormai fortemente danneggiato dalle conseguenze più negative del maxiprocesso e dalla condanna in primo grado di tantissimi mafiosi incastrati dalle dichiarazioni di quei pentiti che hanno fatto crollare, per la prima volta, il muro dell’omertà e il mito dell’impunità di Cosa Nostra.
    In questo periodo sempre più forte si avverte la necessità, da parte dei vertici dell’associazione criminale, di ricercare nuovi “canali” verso i quali orientare la propria capacità di dirigere i consensi elettorali. Agganci più affidabili di quanto non si fossero rivelati quelli del passato.
    E per raggiungere tale scopo Riina continua ad avvalersi di quel contatto, coltivato fin dagli inizi degli anni Ottanta, con la galassia Fininvest.
    Giovanni Brusca, spiega Angelo Siino, <>. <>, <>.
    L’avvertimento soft di via Rovani e la minaccia che spaventò sul serio il Cavaliere nel 1988 non erano bastati.
    E’ in questo contesto che prende il via una serie di attentati incendiari e intimidatori in danno dei magazzini Standa di Catania. Sulle prime l’obiettivo è estorsivo e non si rivolge solo alla Standa, ma anche al gruppo Sigros – La Rinascente, facente capo alla Fiat.
    Successivamente, prosegue Ingroia, dopo un proficuo scambio di idee fra i capifamiglia palermitani e catanesi l’obiettivo si amplia. <>.
    Tanto che il pentito Filippo Malvagna, nipote del noto boss mafioso Giuseppe Pulvirenti detto ‘u malpassotu’ dichiara: <>. L’obiettivo era <>, <>, aggiunge Claudio Severino Samperi, esecutore materiale degli atti incendiari, ma le reali motivazioni di tali atti le <>, <> nonostante <>.
    Anche Antonino Giuffré, all’epoca capomandamento, riceve un invito da parte del Riina <>. Perché il suo obiettivo, aggiunge, era quello di <>.
    Negli ambienti milanesi il messaggio viene recepito. Mentre il gruppo Sigros ammette agli inquirenti di avere subito delle estorsioni ed indica perfino lo specifico importo delle tangenti pagate, i responsabili nazionali Standa giurano di non sapere nulla e i rappresentanti siciliani del gruppo forniscono una versione estremamente riduttiva e, a detta dei pm, assolutamente incredibile dei fatti.
    Agli atti intimidatori segue intanto una sorta di braccio di ferro tra la mafia e il gruppo Berlusconi.
    Giuseppe Pulvirenti parla dell’idea maturata all’interno di Cosa Nostra, e successivamente abbandonata, di <>, Samperi racconta invece che Salvatore Tuccio (noto esponente della famiglia mafiosa catanese di Santapaola), <>, <> del tipo <>. Poi, conclude, circa un paio di mesi più tardi <>.
    A mettere a posto le cose, è la testimonianza concorde di molti collaboratori di giustizia, e in primo luogo Filippo Malvagna, è intervenuto Dell’Utri.
    <>.
    Nei due mesi di trattativa almeno due sarebbero gli incontri del braccio destro di Silvio Berlusconi con gli esponenti della mafia locale. Il primo con Salvatore Tuccio, a Milano, in esito al quale vengono offerte allo stesso allettanti prospettive di reinvestimento del denaro della “famiglia” di Catania. L’altro, quello decisivo, in provincia di Messina, con Aldo Ercolano (noto esponente della famiglia mafiosa di Santapaola, a Catania) e Nitto Santapaola in persona.
    <>, racconta Maurizio Avola, pentito catanese, Dell’Utri <>.
    Poco prima di quell’incontro, Aldo Ercolano, all’odierno pentito Francesco Pattarino, al tempo rappresentante della famiglia di Catania per Siracusa, afferma: <>.
    <>. <>.
    A questo punto viene siglato l’accordo. <>.
    Ma cosa ha promesso Marcello Dell’Utri?
    E come ha intenzione di agevolare i “progetti politici” di Cosa Nostra?

    I nuovi referenti
    Nel medesimo periodo, il 1991, Vittorio Mangano, in carcere dall’83, torna in libertà. E tenta di riappropriarsi dell’esclusiva dei vecchi rapporti con Dell’Utri e Berlusconi. Ma Salvatore Riina non glielo permette. Tramite Salvatore Cancemi, in rapporti intimi con lui, gli manda a dire di farsi da parte.
    <>. Ma Vittorio, prosegue Cancemi, <>. Gli ricorda quindi gli anni della sua permanenza ad Arcore, <>, poi chiede: <>. Si convince soltanto quando il Cancemi gli ripete: <>.
    L’anno successivo viene emessa la sentenza di Cassazione del maxiprocesso. Le condanne ai boss di Cosa Nostra, richieste dai giudici del pool antimafia di Falcone e Borsellino, non vengono annullate come Riina sperava. Alla sbarra, con sentenza definitiva, centinaia di mafiosi.
    La mafia, ferita, da il via a un violento attacco allo Stato. Mentre a Milano infuriano le indagini su Tangentopoli che chiudono il capitolo Dc in Italia, uccide i nemici giurati Falcone e Borsellino e realizza un programma di destabilizzazione politica, che ha come preliminare obiettivo l’azzeramento dei rapporti con i referenti politici tradizionali, ritenuti ormai irrimediabilmente inaffidabili. Uccide Salvo Lima e Ignazio Salvo e programma l’assassinio di Martelli, Mannino e di un figlio di Andreotti.
    Il 15 gennaio del 1993 Riina viene arrestato a Palermo.
    Cosa Nostra, però, non si ferma. Il 27 maggio del 1993 un’autobomba scoppia in via dei Georgofili, a Firenze. 5 i morti. Il 27 luglio altre due bombe seminano terrore e morte a Milano, in Via Palestro e a Roma, contro le basiliche di San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro. Ancora 5 le vittime.
    Marcello Dell’Utri, “canale” preferenziale di Cosa Nostra verso quel mondo imprenditoriale e politico oggetto di forti attacchi da parte dell’organizzazione criminale non viene annoverato tra quegli “amici” della mafia ritenuti ormai inaffidabili. E non viene toccato.
    Al contrario, sottolinea Ingroia, è un alleato sul quale contare per avere un lungo e luminoso avvenire. E le sue continue relazioni con mafiosi di rango, in quegli anni, sono dimostrate anche da una recente sentenza di condanna che attesta come egli continuasse a compiere atti estorsivi avvalendosi dell’intervento di un soggetto mafioso della portata di Vincenzo Virga. E dei suoi legami con soggetti vicini ai fratelli Graviano, capimafia fra i protagonisti più assoluti della stagione stragista del 1993.
    Dell’importanza di Dell’Utri all’interno di Cosa Nostra, in quel delicato momento storico, parla Salvatore Cancemi, rivelando una confidenza ricevuta da Raffaele Ganci da far risalire a poco prima della stagione stragista del 1992-93. <>.
    E’ il pentito a ricollegare questo discorso con quello dello stesso Riina che ordinandogli di dire a Mangano di farsi parte aveva detto: <>.
    Il pm, allora, gli chiede: <>.
    Cancemi risponde: << E’ una cosa che qualunque cosa io ci chiedo ce l’ho nelle mani e sono a disposizione o loro chiedono e io sono a disposizione. Questo è il significato che c’è una cosa reciproca>>.
    Il pm chiede ancora: questa persona importante è Marcello Dell’Utri?
    Il collaboratore risponde: <>.
    <Ma la realtà sta cambiando assai rapidamente e urgono decisioni altrettanto rapide. In questo contesto, matura all’interno di Cosa Nostra una strategia della tensione finalizzata a ristrutturare i “rapporti con la politica”, attraverso l’azzeramento dei vecchi referenti politici e la creazione delle condizioni più agevoli per l’affermazione di nuovi soggetti politici, che tutelassero più efficacemente gli interessi del sistema mafioso>>.
    L’evento che segna la fine un’epoca di quei vecchi rapporti, interviene ancora Giuffré, è l’omicidio dell’on. Lima. Un atto, spiega, con il quale si intendeva chiudere un rapporto <>. <>.

    Forza Italia
    Nel 1992, quindi, Dell’Utri il <>, come lo definiscono i pm, il <>, <> e che mai si era interessato di politica, inizia a farsi protagonista ed artefice, in prima persona, di iniziative politiche legate al mondo Fininvest. Coinvolge in primo luogo il democristiano Ezio Cartotto, vecchio amico e consulente di Berlusconi, analista politico, per ragionare sulle possibili prospettive per il gruppo Fininvest e, a tal fine, gli commissiona una serie di conferenze sul tema. Cartotto viene contattato da Dell’Utri in gran segreto, ed è lui stesso a raccontarlo ai pm. <>. Ma <>. Per Dell’Utri, continua, vi era la necessità <>. <>. Più specifico Giovanni Mucci, collaboratore di Cartotto: <>.
    E mentre l’imputato, nell’intento di ripararsi dalle dichiarazioni dei pentiti, continuerà a dire che fu Berlusconi, <> a comunicargli l’iniziativa, lo smentiranno una serie di altri testi, <>, come li definiscono i pm, tra cui gli amici Enrico Mentana, Maurizio Costanzo e Gianni Letta, citati dalla difesa.
    Tra le altre cose, Letta ricorda il suo stupore nell’aver appreso che Berlusconi, nonostante il parere contrario alla sua discesa in campo da parte sua e di Fedele Confalonieri preferì l’opinione di Dell’Utri. che sul Cavaliere aveva, evidentemente, una notevole influenza.
    <>. Pm: <>. Letta: <>.
    Si spinge ancora più in là Enrico Mentana che aggiunge: mentre ancora vi era un dibattito interno al gruppo (di opinione contraria all’avventura politica anche Maurizio Costanzo) Dell’Utri era già passato alla fase organizzativa. <>, sono le sue parole, <> <>, in particolare il <>, <>.
    Nel 1993 Dell’Utri tenta però anche un’altra via. In quell’anno i boss ancora legati alla strategia stragista di Riina fondano “Sicilia Libera”. Una iniziativa politica che dovrebbe collegarsi ad una serie di leghe spuntate un po’ ovunque nel meridione, la cui paternità è attribuibile ad ambienti della massoneria deviata e della destra eversiva.
    Sul fronte di Cosa Nostra, spiega infatti Giuffré, l’arresto di Riina determina <> e <>, sicché si creano due schieramenti: da un lato Bagarella, Brusca e i Graviano, che propendono per la prosecuzione della strategia stragista, dall’altro Provenzano, Aglieri, Greco, Raffaele Ganci e lo stesso Giuffré. I quali prediligono invece una soluzione trattativista.
    Sono i primi i principali promotori di “Sicilia Libera”. E in particolare Leoluca Bagarella che, in alternativa alle scelte di Provenzano e per evitare l’errore già commesso da Riina – quello di dare troppa fiducia ai politici – medita di creare un movimento politico nuovo portato avanti direttamente da uomini di Cosa Nostra. Da questo progetto, racconta Giuffré, <>, il gruppo dello schieramento più vicino a Bernardo Provenzano, <>. Già nel passato, siamo attorno agli anni ’82-’83 continua, <>, ma <> <> avevano avuto un’idea simile che <>. Alla fine, anche Bagarella si convince e abbandona l’idea.
    Dell’Utri dal canto suo, dopo quella breve parentesi torna a concentrarsi completamente sul progetto a cui da mesi lavora con Cartotto.
    Nella seconda metà del 1993, la notizia della discesa in campo di Berlusconi comincia a girare all’interno di Cosa Nostra. Proprio nello stesso periodo in cui, ricorda ancora Cartotto, il Cavaliere si incontra con Bettino Craxi, l’uomo che Cosa Nostra voleva agganciare negli anni precedenti, il quale lo spinge <> facendogli prendere la decisione definitiva.
    Iniziano per l’organizzazione mafiosa, prosegue Giuffré, un periodo di <>,<>. Si fa una sorta di sondaggio interno, uno <> che voleva appurare con sicurezza <> degli agganci. Che dovevano servire a <>. I mali, precisa, sono <>. C’erano poi <>, e la <> esercitata <>. Infine <>. <>.
    Fra i capimafia, comincia a diffondersi un senso di rinnovata fiducia. Sembrano essere stati trovati i giusti contatti, tra i quali Marcello Dell’Utri.
    Di lui Giuffré parla insieme a Pietro Aglieri e Carlo Greco. <>. Alla fine il Provenzano <> con Cosa Nostra di dare il proprio assenso ad appoggiare il nuovo soggetto politico per il quale vi erano stati i contatti con Dell’Utri. <>. <>. Perché <>.
    Nel novembre del 1993, con il fallito attentato allo stadio Olimpico di Roma, finisce bruscamente la lunga stagione stragista di Cosa Nostra.
    L’accordo è stato quindi raggiunto? Ma quali sono le garanzie ricevute da Provenzano?
    Il patto, spiega ancora Giuffré, prevede da una parte la <>, che <> si sarebbe sistemato tutto; dall’altra l’impegno a dare appoggio elettorale al partito e a porre fine alla strategia stragista. <>. <>.
    Numerose le intercettazioni telefoniche e numerosissime le dichiarazioni dei collaboranti che confermano la ricostruzione di Giuffré. Che parlano di consensi elettorali da indirizzare verso i candidati del nuovo movimento politico Forza Italia. Tra questi Antonio Calvaruso – che venne motivato da Leoluca Bagarella con l’assicurazione che da tale appoggio sarebbero derivati benefici per Cosa Nostra; Emanuele di Filippo e Pasquale di Filippo – la cui fonte è ancora Bagarella; Tullio Cannella, Antonino Galliano, Giusto di Natale e Francesco La Marca. Questi ultimi due confermano, tra l’altro, l’importante ruolo rivestito da Mangano nella stipula dell’accordo pre-elettorale, che anche Giuffré aveva affermato.
    E dei suoi rapporti con Dell’Utri.
    Rapporti peraltro testimoniati dalle agende di Dell’Utri, tenute dalla segretaria Ines Lattuada e sequestrate nell’ambito di un’inchiesta a suo carico sulle false fatture di Publitalia, presso la quale rivestiva la carica di amministratore delegato. Su quei fogli, più di una volta è annotato il nome di Mangano. In particolare il 2 novembre del 1993 (<>) e il 30 novembre 1993 (<>). Annotato, più volte, anche il nome di Gaetano Cinà. Con entrambi, l’imputato ammette di aver mantenuto rapporti, ma se per il secondo dichiara di non essere a tutt’oggi convinto che egli possa essere uomo d’onore, per il primo si giustifica dicendo: <>.

    I rapporti continuano
    Ma il collaboratore Vincenzo La Piana, fino al ’97 vicino alla famiglia di Porta Nuova e legato a Mangano sin dagli anni Settanta riferirà ben altro. I rapporti tra l’odierno senatore e lo “stalliere di Arcore”, dichiara, erano ancora così profondi che il senatore si impegnerà con ogni mezzo per alleggerire la sua posizione carceraria, aggravatasi, dopo l’arresto del 1994, nel 1995 in seguito all’applicazione nei suoi confronti del regime del 41 bis e al suo trasferimento dal carcere di Termini Imerese a quello di Pianosa.
    La Piana ricorda: <>.
    Tre sono gli incontri con il senatore narrati dal collaboratore. Nel secondo, specifica, Dell’Utri disse: <<’U cavaliere per ora è bersagliato. Comunque però ci interessiamo lo stesso perché merita il nostro interessamento>>. Quello di Mangano, aveva quindi specificato il politico, era diventato un <>.
    E a dimostrare questa affermazione, intervengono i pm, varia documentazione che testimonia come nella seconda metà del 1995 alcuni deputati visitarono il carcere di massima sicurezza di Pianosa e uno di questi si intrattenne con Vittorio Mangano. A seguito del colloquio, lo si evince da un dispaccio Ansa, si montò un caso politico sulla detenzione del boss, presentato in quell’occasione come persona le cui condizioni di salute erano incompatibili con il regime carcerario.
    Di tutt’altro genere il terzo incontro narrato dal La Piana. Che si inserisce nel contesto di un traffico di stupefacenti, organizzato dall’odierno collaboratore e Rosario D’Agostino, grosso produttore di cocaina residente in Colombia. Per il traffico, ricorda il La Piana, <> <>.
    <>. L’importo richiesto <>.
    L’incontro, ricorda il pentito, avviene all’interno di un capannone. Dove il Di Grusa si apparta con il senatore. Il Di Grusa <>. Successivamente il Di Grusa riferisce al La Piana: <>.
    E anche le dichiarazioni del La Piana, specificano i pm, sono confermate da moltissimi riscontri incrociati, tra i quali le risultanze del traffico telefonico, esaminate dal prof. Gioacchino Genchi, dei soggetti interessati alle vicende da lui narrate; l’identificazione dei luoghi nei quali sarebbero avvenuti i diversi incontri; le rivelazioni dei collaboratori di giustizia. Tra i quali gli stessi Cucuzza e Zerbo nonché Giovanni Brusca.
    Il Mangano, è il racconto di Brusca, <>. Tale impresa, sottolineano i pm, non può essere che quella di Sartori Natale il quale, è emerso dalle indagini della Dia di Milano, svolgeva lavori presso Publitalia 80 e nel contempo proteggeva la latitanza del Di Grusa, garantendo recapiti, utenze telefoniche e necessari documenti.

    Le elezioni
    del 1999
    Il 25 ottobre del 1995 cominciano per Dell’Utri i grossi guai giudiziari. Viene arrestato a Torino per aver inquinato le prove nell’inchiesta sui fondi neri di Publitalia e l’anno successivo, a seguito della sua elezione a deputato di Forza Italia, viene condannato in primo grado a 3 anni di carcere. L’accusa è false fatture e frode fiscale. In appello la pena sale a 3 anni e 2 mesi e in Cassazione, per evitare la carcerazione, patteggerà a 2 anni e 6 mesi definitivi. Da quel momento, Dell’Utri è un pregiudicato.
    Ma i guai non si fermano.
    Nel 1997 inizia a Palermo il processo che lo vede imputato di concorso esterno in associazione mafiosa. Insieme a lui, ma per associazione mafiosa, viene processato Gaetano Cinà.
    Nel corso del procedimento il senatore viene sorpreso da uomini della Dia mentre incontra il falso pentito Pino Chiofalo. Dalle indagini svolte dalla procura emerge l’esistenza di un complotto per usare falsi pentiti allo scopo di screditare quelli veri chiamati a testimoniare nel processo palermitano. Sia quelli che accusano Dell’Utri sia quelli che accusano i boss di Cosa Nostra.
    Dopo aver ascoltato le dichiarazioni di Chiofalo, che patteggia la pena e afferma che Dell’Utri gli assicurò che “lo avrebbe fatto ricco”, il gip dispone la cattura del senatore alla quale l’imputato sfuggirà perché la camera, a maggioranza Ulivo, negherà l’autorizzazione.
    Nel 1999 Dell’Utri è candidato al Parlamento europeo nei collegi Sicilia e Sardegna.
    Dalle intercettazioni effettuate nell’ambito dei procedimenti “Amato” e “Ghiaccio 2”, relativi a soggetti vicini a Bernardo Provenzano, emerge nuovamente l’importanza rivestita all’interno di Cosa Nostra dal senatore forzista.
    Di estremo rilievo i colloqui registrati dagli inquirenti tra Carmelo Amato e le persone a lui legate, tutte orbitanti attorno alla famiglia di Malaspina.
    Tra questi, quelli effettuati all’interno dell’autoscuola “Primavera”, gestita proprio dall’Amato, dove, a detta di Antonino Giuffré, <>.
    Il 5 maggio del 1999, Amato e Michele Lo Forte discutono delle vicine elezioni del 13 giugno ed in particolare, annotano i pm, <>.

    AC: …dobbiamo portare a Dell’Utri…
    LM: ..ppii... esce Dell’Utri
    AC: compare lo dobbiamo aiutare perché se no lo fottono
    […]
    AC: eh… compare se passa lui e sale alle europee non lo tocca più nessuno

    In altra conversazione l’Amato dice testualmente: <>.
    E’ invece Gioacchino Severino, rivolto sempre all’Amato, a riferire: per l’elezione di Dell’Utri <>.
    Ma occorre fare attenzione, sollecita il 5 giugno il Lo Forte, che parla dello <>, dato che vi è il pericolo di essere seguiti e fotografati e, specifica, <
  • >.
    Tra i soggetti gravitanti attorno all’autoscuola vi è infatti anche l’imputato Gaetano Cinà.
    Con un ruolo operativo, all’interno della Cosa Nostra di Provenzano, evidentemente per effetto dei suoi rapporti con Dell’Utri.
    <>, sono le parole di Cinà, rivolte all’Amato che, dal canto suo, risponde: <>.
    Il 13 giugno Dell’Utri viene eletto eurodeputato ed entra a far parte della Commissione Giustizia del Parlamento Europeo.

    Gli impegni
    con Cosa Nostra
    Il 13 maggio del 2001 Dell’Utri viene eletto senatore della Repubblica.
    Dalle intercettazioni ambientali disposte a casa del boss Giuseppe Guttadauro, reggente del mandamento di Brancaccio, si sente ancora parlare di lui.
    Il 9 aprile del 2001, Guttadauro afferma che il politico aveva preso degli impegni con l’associazione mafiosa nel 1999, ma che <>.
    L’unica persona con la quale aveva preso l’impegno del ’99, specifica Guttadauro, <>, <>, della cosca di Villagrazia.
    <>. E quindi il discorso si sposta sui giornalisti. E’ ancora Guttadauro a chiedere al suo interlocutore, Salvatore Aragona, di ottenere una visita di Giuliano Ferrara o Rocco Buttiglione presso l’Ucciardone per verificare le condizioni dei detenuti e farne oggetto di dibattito. Aragona, in risposta, propone di attivare per questo scopo Giancarlo Lehner o Lino Jannuzzi, quest’ultimo a mezzo del Dell’Utri. <>.
    Il 9 aprile del 2001, proseguono i pm, <>.
    A pochi giorni dalle elezioni Aragona e Guttadauro discutono sulla necessità di <> Dell’Utri <>, probabilmente, aggiungono i giudici, per non inguaiarlo ed appoggiarlo a Palermo. In primo luogo, ragiona Guttadauro, <> bisogna <> giudiziari e poi, se viene a Palermo, <>.

    Conclusioni
    Avrà rispettato il senatore di Forza Italia quegli impegni presi con l’organizzazione mafiosa?
    Di sicuro c’è che a seguito delle dimissioni di Domenico Contestabile, Marcello Dell’Utri, su richiesta di Forza Italia, ha recentemente ottenuto la nomina di componente della delegazione italiana presso l’assemblea del Consiglio d’Europa e l’assemblea dell’Ueo.
    Per tale motivo godrà dell’immunità parlamentare, e in una forma particolarmente estesa.
    E una volta parlamentare, come dice il boss Guttadauro nel corso di un’intercettazione risalente al 21 aprile 2001, <<è stato uno schiaffo alla Procura>>, perché <>.